Giovani e altre novelle
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La nutrita produzione, sia nell'ambito dei romanzi, sia in quello delle novelle, configura Tozzi come uno dei massimi narratori italiani. Autore impietoso e crudo come pochi altri nel disvelamento della condizione umana, senza l'attenuazione del (pur amaro) riso pirandelliano o dell'ironia sveviana, refrattario ad ogni rigida determinazione critica, Tozzi, nelle sue novelle, manifesta una rara forza espressiva, nonché una virtù innovativa sia nella trattazione dei temi e dei personaggi, che nella strutturazione formale del narrare.
Federigo Tozzi è considerato uno dei più importanti narratori italiani del Novecento. Lasciò le sue opere per lo più inedite. Nato a Siena nel 1882 e morto a Roma nel 1920. lo scrittore fu riscoperto dal grande pubblico molto tardi, dal 1962 al 2000 da scrittori e critici come Carlo Cassola, Giuseppe de Robertis, Enrico Falqui, Carlo Bo, Alberto Asor Rosa ed altri. Questa recente critica ha capovolto la visione di un Tozzi realista proponendolo come scrittore di stampo profondamente psicologico e vicino al simbolismo, paragonandolo a livello europeo alla prosa di Kafka e Dostoevskij.
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Giovani e altre novelle - Federigo Tozzi
gobba
Giovani
Pigionali
Marta e Gertrude avevano la porta allo stesso pianerottolo buio; e la gente sbagliava sempre.
Marta era vedova da dieci anni, e Gertrude zitella con i capelli grigi. Stavano lì fin quasi da ragazze; ma si facevano visita soltanto le feste solenni, e poi nessuna di loro entrava più nella casa dell’altra. Anche queste visite erano brevi quanto bastava a parlare del tempo e della salute, e avvenivano la mattina dopo la messa e prima che cominciassero a preparare il pranzo.
Marta diceva:
«Mi son comprate queste stringhe per le scarpe».
«Io avevo bisogno di una sottana meno sporca.»
«Speriamo che l’anno novo passi meglio!»
«Speriamo!»
«A rivederla: io non le do più fastidio.»
«Poso il libro delle preghiere e vengo a trovare lei.»
«Vedrà: la mia casa è ancora in disordine.»
E si lasciavano.
Dopo un quarto d’ora, Gertrude suonava il campanello alla porta di Marta; la quale, aspettandola come un fastidio, correva subito ad aprire:
«Entri.»
«No, no; è meglio che non perdiamo tempo. Tutte e due abbiamo da fare.»
«Ha ragione. Come sta di salute?»
«I soliti dolori alle ginocchia, specialmente la sera. E lei?»
«Io non vedo l’ora di morire. Non posso dir altro.»
«Speriamo che Dio ci assista, come ha fatto sempre.»
«Speriamo.»
«A rivederla, signora Marta. Mi sono trattenuta anche più di quel che lei da me.»
«Non importa!Non importa! Anzi, mi ha fatto piacere.»
E né meno questa volta si davano la mano; sorridendosi, allegre.
E siccome le loro camere avevano un muro a comune, quando l’una capiva quel che faceva l’altra, allora procurava di muoversi più piano perché l’altra non sentisse lo stesso. Qualche volta capitava che, per scansare una sedia o il letto, cozzavano nello stesso tempo, e quasi nello stesso punto, la parete. E allora si fermavano ambedue, aspettando un poco.
Solo una notte, in tanto tempo, dopo essere state destate da una scossa di terremoto, si chiamarono; senza alzarsi, però:
«Signora Marta!».
«Signora Gertrude!»
«Ha avuto paura?»
«Piuttosto!»
«Anch’io.»
E non vollero dirsi altro. La mattina evitarono d’incontrarsi per le scale.
E pure tanto Gertrude che Marta non facevano che pensare sempre l’una all’altra: se fino a mezzogiorno non si erano sentite, andavano ad ascoltare alla parete.
Gertrude aveva una bella gatta tutta bianca e con gli occhi celesti, che le ricordavano il colore della sua coroncina di vetro. Marta, quando la vedeva sul pianerottolo ad aspettare che la sua padrona aprisse, entrava in casa senza rumore e faceva entrare anche lei, portandole un pezzetto di pane o di cacio; perché ci aveva i topi. Ma voleva che Gertrude non se n’avvedesse; per non fare il viso rosso. La gatta, però, non voleva saperne di cercare i suoi topi; e miagolava perché la lasciasse andare. E Marta doveva riaprire la porta.
Marta aveva in vece il campanello che suonava meno bene di quello di Gertrude; e così la sua porta bisognava spingerla due volte con forza per mettere il paletto dalla parte di dentro. Aveva anche il pavimento che tremava a camminarci sopra; mentre quello di Gertrude no. Ognuna di loro, però, credeva di avere lo stesso numero di stanze. E, con tutta la curiosità che sentivano di saperlo, non se l’erano mai domandato.
Anzi questa curiosità cominciava a doventare un sentimento ostile. Ma facevano di tutto per contenersi; per educazione. Marta era piccoletta, con gli occhi azzurri e taglienti; vestiva sempre di scuro con una gran rosa chiara sul cappello. Gertrude, in vece, aveva una faccia liscia, e un’aria tra l’idiota e il sinistro; alta, con gli occhi che bisognava dirli verdi; e i capelli gialli. Ma non era cattiva né meno lei. Del loro tempo passato non esisteva che qualche segno nei ricordi; anche la tomba del marito di Marta era doventata sempre più invisibile, con una pietra dove non leggeva più nessuno, sotto i folti ciuffi d’erba grassa e lustra. E, quand’era piovuto, l’acqua ci lasciava sopra le foglie dei cipressi.
Il loro tempo passato s’era staccato tutto da loro; ed elle s’erano avvizzite come se non avessero più potuto riceverne le linfe. In vano avrebbero tentato di riavvicinarcisi.
Ma ora, gli anni erano sempre uguali; e tanto l’una che l’altra vivevano soltanto di quel che avveniva durante una giornata. Erano contente che le stesse cose tornassero e di fare sempre gli stessi discorsi; come se li avessero dovuti imparare a mente. Se avessero dovuto esprimere un’idea di più, non sarebbero state capaci. Ecco anche perché le loro porte si rassomigliavano.
Ma, alla fine, Gertrude si ammalò: sentì ch’era per morire: ella voleva morire. Non si sarebbe rialzata da letto che a malincuore. La malattia le dava il senso piacevole dell’ozio, da cui non ci si può liberare. Diceva a tutti, come se si fosse trattato di fare un viaggio qualunque:
«Finalmente morirò!».
E sorrideva, più lunga del letto, cercando di convincere gli altri a sorridere. Ma la morte tardava. Allora ella si figurava di poter farla venire soltanto con il desiderio che ne aveva. Quando si ricordava di Marta, pensava:
Lei vivrà ancora. Sono contenta che resti a vivere
.
Era questa una specie di vendetta che si poteva prendere; come uno, arricchendo, dicesse: non sono io, ma l’altro che è povero. Sentiva, del resto, una grande dolcezza e una grande simpatia per le cose che vedeva e per le persone che l’andavano a visitare. L’aveva anche presa la smania di fare regali a tutti. Lo diceva sempre:
«A te darò il mio anello. Perché me lo dovrei far mettere quando sarò morta? A te, le mie posate d’argento. Basta che tu mi prometta di non venderle mai. Ma a Marta, anche se verrà a trovarmi, non le darò la gatta, perché me l’ha sempre invidiata!».
Ma era stanca di vedere le pareti della camera, e sempre di più la sua impazienza cresceva, come la febbre. Alla fine, la morte venne da vero; quando Gertrude non se ne accorse né meno.
E Marta che non s’era mai arrischiata ad entrare in casa sua! Qualche volta aspettava, alle scale, la gente che esciva; per domandare le notizie della malata. Ma si raccomandava che non lo ridicessero a lei.
Non dormiva più: sapeva che, dall’altra parte del muro, in una camera come la sua, il lume ad olio restava acceso tutta la notte.
Aveva anche una gran voglia di parlarne e di compassionarla; pensando di dirle un monte di cose belle e dolci e pregando per lei: voleva che andasse in paradiso.
Ora chiamava la gatta non perché chiappasse i topi, ma perché gliela voleva governare. Le pareva così di levargliela; doventandone padrona lei.
Ma una notte sognò che Gertrude era guarita; e la vedeva passare lesta lesta, senza muovere le gambe. Dove andava? Tentò di fare anche lei lo stesso, ma non ci riescì.
Questo sogno le lasciò una grande invidia. Non ebbe oramai né meno un sentimento buono; e non dette ancora da mangiare alla gatta; per paura che Gertrude non morisse più. O se invece gliel’avesse regalata?
Come le dispiaceva di starci di casa insieme da tanto tempo! Perché l’aveva conosciuta? Poi, se la prese perché sentiva suonare il suo campanello almeno sei o sette volte al giorno.
La sua finestra di cucina la distraeva un poco, ma non gliela faceva dimenticare. Battevano le ore dalla Torre del Mangia in quel silenzio di tutta Siena; e un’eco, proprio come un altro orologio, le ripeteva fino alla campagna, con una chiarezza placida. Gli alberi dietro l’Ospedale coprivano i finestroni dei malati; e le fonti tonde degli orti sotto le mura luccicavano come specchi sbiaditi. Le colline avevano una dolcezza immobile nell’aria limpida; e la cattedrale era così candida che quando c’era troppo sole faceva male agli occhi.
Stormi di rondini empivano il cielo di strida, continuamente; giravano dietro la casa di Marta; e, poi, più vicine, quasi rasenti, in modo che si sentiva il loro volo; altri stormi venivano dalla Torre del Mangia, piegavano da una parte, tornavano a dietro, una rondine sola, da un’altra torre, passava rapidamente, a scatti; uno stormo, più piccolo e più rado, restava per ore e ore sempre nello stesso punto. Qualche campana suonava; ed ella riconosceva la chiesa.
Vedeva tanti tetti che, di là su, da sopra, parevano sospesi per aria. Le rondini andavano anche sotto le sue grondaie a fare i nidi; salendo dagli orti verdi, con qualche pesco fiorito e i cipressi sempre uguali. L’aria della primavera non le ricordava niente, ma si sentiva meglio; e ne provava tanto piacere, sapendo che Gertrude era malata e non vedeva quel che vedeva lei. Ora capiva, però, senza saperne la ragione, perché bisognava vivere: apriva la finestra e zuppava il pane nel latte bollente, tenendo la tazza senza il manico sopra il davanzale; per avere dinanzi agli occhi tutta quella serenità. Masticava piano, piano, per non fare troppo presto; pensando con gioia che anche il marito era morto. E questa era una cosa inspiegabile, perché gli aveva voluto sempre bene.
Ma sentirsi a quel modo era una felicità. Pensava: Posso mangiare con comodo, perché non devono venire a prendermi con la bara
.
Tuttavia aveva anche lei una tristezza insolita, che le ricordava altri tempi; e rivedeva le cose lontane con una chiarezza che le parevano pitture: in certi momenti anche i fiori finti si credono veri.
Marta sentiva una vecchia anima, che parlava invece di lei; e non glielo poteva impedire. Perché i suoi ricordi avevano una vita artificiale indipendente. Ma ella si metteva a guardare la parete, di là dalla quale c’era Gertrude, con un’aria di sfida un poco paurosa; forse, non era grossa abbastanza; e, forse, la potevano vedere lo stesso. Ci tendeva i pugni contro, con rabbia; minacciandola. Non era possibile vivere senza che pensasse a Gertrude? E quando la portarono via, escì di casa e andò a sedersi in un sedile del passeggio pubblico della Lizza; ma piangeva, però, e le pareva che la bara le passasse dinanzi.
Allora, attaccò discorso con una bambinaia, provandone una grande riconoscenza, perché le parlava di tutt’altre cose.
E benché si vergognasse d’essere escita fuori, non tornò a casa prima di sera.
Per le scale, al buio, ebbe paura: mentre girava la chiave nella serratura, la gatta le si strofinò alle gambe senza miagolare. Ella gettò un grido.
Prima di addormentarsi, ma non chiuse mai le persiane perché entrasse nella camera il chiaro di luna, guardò lungo tempo la parete aspettandosi che la morta picchiasse qualche colpo con le nocche delle dita.
Due giorni dopo, salendo un’altra volta le scale, la gatta le andò incontro miagolando. Ella si chiuse, sbattendo la porta fino a rintronare tutte le stanze.
Ma le ci voleva poco a capire che ormai quella casa non era più per lei: come quando c’è entrato un ladro. Infatti le pareva che ci mancasse tutto: anche l’aria. E, allora, cominciò a stare quasi ogni giorno fuori; sedendosi nella prima panchina vuota che le capitava, sotto i rami delle piante nel giardino pubblico. Stava lì, ore intere, a guardare la gente che passava; ascoltando anche il ronzìo di una mosca. Smise perfino di porre i fiori alla tomba del marito, per non essere costretta a inginocchiarsi a quella di Gertrude. Era necessario che se ne dimenticasse, come se non l’avesse conosciuta mai! Ma la morta, in vece, era più viva di prima; e tra loro avvenivano conversazioni di una lunghezza snervante; che, alla fine, la facevano sbadigliare.
E, la sera, doveva sempre incontrare la sua gatta più magra e stenta, e così sporca che forse andava a razzolare in mezzo ai mucchi della spazzatura. Aveva fatto il corpo affilato e mencio; con il naso non più roseo e dolce, ma giallo e patito.Negli orecchi perdeva il pelo. Voleva entrare a tutti i costi dietro a lei; e miagolava anche quando la porta era stata chiusa; senza chetarsi mai in tutta la notte. La gatta che era sempre di Gertrude!
Allora, andò da un farmacista, pregandolo, sotto voce, perché si vergognava, di venderle qualche veleno. Marta, che non avrebbe dato due centesimi a nessuno, per qualunque ragione, spese mezza lira. Ma era contenta. Povera bestia! Non sarebbe morta di fame!
Tagliò dalla carne per il lesso la pelle grassa, quella che buttava via sempre, involtandoci dentro la polverina bianca. Poi chiamò la gatta, con il cuore che le tremava tra la paura e il piacere.
La gatta, afferrato il cibo e masticatolo rugliando, lo inghiottì quasi intero.
Lo spazzaturaio, trovatala stesa in fondo alle scale, la buttò dentro il suo carretto.
E Marta visse ancora cinque anni.
Un’osteria
Partiti in bicicletta da Firenze, erano ormai dieci giorni che io e il mio amico Giulio Grandi giravamo l’Emilia; e siccome l’indomani egli doveva trovarsi in ufficio, alle Poste, partimmo, benché piovesse a dirotto, da Faenza; per tornare a tempo. Ma s’era già di novembre; e il cielo tutto bigio, con le strade fangose e piene di pozzanghere: gli alberi ormai con poche foglie gialle; e i primi monti dell’Appennino, su per la lunga salita, attaccati alle nebbie.
Non ci parlavamo quasi mai, egli innanzi e io dopo, oppure egli dopo e io innanzi, passando tra le poche e rade case senza che a nessuno dei due venisse voglia di fermarsi. A qualche osteria scendevamo, appoggiando le biciclette al muro di fuori.
«Due cognacche.»
Bevuto senza dir altro, uno di noi chiedeva:
«Quanto?».
Giulio esciva prima che io avessi pagato.
Dopo qualche chilometro, con il fango in bocca e negli occhi che bruciavano:
«Sei stanco?».
«Un poco.»
«Badiamo, però, di non rallentare.»
Incontravamo soltanto qualche barroccio; e il barrocciaio sdraiato sopra il carico, con un grande ombrello verde e il cane che abbaiava, ci guardava senza invece far scansare le bestie.
«Che paese sarà questo?»
«Che m’importa!»
Si vedeva gente ritta dietro i vetri delle botteghe, e la salita non finiva mai; anzi, si faceva sempre più forte.
«Sono tutto indolenzito.»
«Anch’io!»
«Canta!»
«Non ho più voglia.»
«Devi cantare. Bisogna essere allegri, e allora la stanchezza non si sente.»
«Non mi far moccolare.»
Allora, con qualche pedalata più svelta, mi avvicinavo a lui o mi mettevo di fianco.
«Che hai? I nervi?»
«Un poco.»
E mi sentivo scontento anch’io.
Vedevo soltanto la sua maglia sbiadita e i suoi capelli impillaccherati sotto il berretto senza ormai più colore. Qualche volta gli ricordavo qualcosa, perché si voltasse. I suoi occhi neri si alzavano un poco e poi si riabbassavano su la ruota d’avanti. Ma faceva una risata. Era robustissimo, con le braccia scure e pelose come i polpacci delle gambe; e gli volevo bene come a un fratello. L’avevo conosciuto quando andavo a scuola; ma non l’avevo e non l’ho mai più dimenticato. Parlava pochissimo, al meno con me; e, perciò, mi piaceva.
Io ero grasso, ma non meno robusto di lui; e potevamo compiere la stessa fatica.
Ci fermammo a mangiare non ricordo più dove; e siccome ci avevano detto di aspettare perché avrebbe spiovuto, la sera non arrivammo più là di Crespino; quasi a mezzo tra Faenza e Firenze. Le nebbie s’erano diradate, ma proprio sereno non fu mai. Intanto si fece freddo e buio prestissimo; e dovemmo prendere le biciclette a mano. Non ci si vedeva né meno a venti passi di distanza; sicché, per non andar sotto a qualche barroccio, bisognava soffermarsi per capir meglio da dove veniva il suo rumore; ma poi senza gridar più d’una volta, non c’era verso di far scansare nessuno. Intorno, era tutto nero; e non si distinguevano più i monti dal cielo. Alle prime case di Crespino, domandammo dove potevamo mangiare. Ci risposero:
«Più in là troverete un’osteria».
Dietro una svolta, a un uscio, c’era attaccato un lampioncino rosso, ma così affumicato che non faceva punto lume. Ai vetri certe tendine che ci parvero nere.
Entrai prima io. La stanzetta era piena di gente, che si moveva in tutti i sensi. Da una parte, un gran camino con bagliore di fuoco. Al soffitto, un lume a petrolio che spandeva più puzzo che luce. Il vocìo era assordante, e alcuni ragazzi, mi parvero tre, strillavano.
«C’è da cena?»
Da prima non mi ascoltarono né meno; e dovetti quasi gridare. Allora uno di quegli uomini, senza smettere di far la polenta, mi rispose quasi distrattamente:
«Qualcosa c’è».
«Carne?»
Mi rispose in vece una donna, di cattivo umore:
«Uova... salame...».
E con la mano m’accennò non so che attaccato.
«E pane» aggiunse un altro, come per dirmi: «Se tu hai fame, mangia quello. E non importunare».
Chiamai Giulio, con un fischio; e portammo dentro le biciclette, appoggiandole ad una sfilata di sacchi pieni di farina. I ragazzi si chetarono e si misero subito a guardarle e a toccarle, come se non ne avessero mai viste né meno una. Gli uomini, senza dir niente a noi, fecero lo stesso, abbassandosi, per vedere meglio, dopo essersi seduti sopra una panca larga un palmo.
Giulio mi disse sottovoce, dandomi una gomitata:
«Domanda se c’è da dormire».
Ma quella stessa donna, avendo udito da sé, rispose:
«Sì».
Non s’era né meno mossa; fissando sempre dritta la parete davanti a lei; con una pezzuola di colore avvolta intorno alla testa. I suoi occhi luccicavano. Io pensai: E’ una pazza, forse?
. E non potevo fare a meno di non voltarmi a lei. Ma, lavateci le mani, ci mettemmo a sedere. Su la tavola c’erano già i piatti, piccoli e smaltati male; forse, lerci. Alcuni di quegli uomini si sederono ai loro soliti posti; ma gli altri uscirono, salutandosi. Quelli rimasti eran facchini della stazione, e gli altri carbonai e barrocciai.
Accanto a noi due c’era un posto vuoto. E io chiesi, tanto per attaccare discorso:
«Qui chi ci mangia? Se non deve venire nessuno, possiamo star meno a stretto».
Uno, dopo aver bevuto senza staccare gli occhi da me finché teneva il bicchiere alla bocca, rispose:
«E’ per la maestrina».
Tutti fecero una risata; ma poi si misero a parlare tra sé, di cose loro.
Giulio esclamò:
«La maestrina? Speriamo che sia bella!».
«Speriamo» io risposi sorridendo, un po’ seccato. «La minestra quando è pronta?»
Nessuno rispose. Ma, dopo dieci minuti, ce la vuotarono nel piatto. E quella donna sempre ferma!
«Non glie lo tireresti un bicchiere, per farla smovere?»
«Manca il pane!» allora gridò Giulio, guardandola attento. L’oste s’era messo a mangiare su un panchetto del focolare piano; insieme con i ragazzi, che ridacchiavano.
«Ce lo portate?»
Non s’era ancora alzato dal panchetto, quando la maestrina entrò. Prima di scorgerci, si soffermò salutando. Ma nessuno rispose; né meno la guardarono. La sua voce ci fece l’effetto di uno che parli dal fondo di una grotta. Dovendoci venire accanto, arrossì e impallidì fino a soffrire; tremando e voltandosi subito dalla parte opposta.
Noi la salutammo nel modo più adatto che ci fu possibile e che le facesse piacere. Ella dette un’occhiata a quelli della tavola; e rispose con la testa sul piatto:
«Buona sera!». E finì di accomodarsi, perché la sottana si sgualciva.
Aveva posato accanto alla forchetta il «Corriere delle Maestre» ancor dentro la fascia: e siccome sopra c’era l’indirizzo stampato in una strisciolina rossa, lo voltò dall’altra parte.
Non era brutta: aveva i capelli sottilissimi e morbidi, quasi senza nessuna pettinatura; e il collo lunghetto e bianco; piuttosto magra; e nel dorso delle mani si vedevano muoversi i tendini sotto la pelle ancor fresca e chiara. Aveva gli occhi azzurri e così tristi che parevano oscuri; con le palpebre grandi e delicate. Portava un grembiulino come hanno le alunne a scuola; e cominciò a sbriciolare la midolla del pane, appallottolandola con le dita sopra la tovaglia.
Giulio mi sussurrò:
«Non la infastidire».
«Oh, no! Ma, appunto, bisogna parlarle. Vedi che gente ci ha qui intorno?»
«Aspetta un altro poco.»
La minestra, quantunque non buona, ci aveva fatto bene; e non soltanto allo stomaco: il malessere alla testa se ne andava. Allora io non potei aspettare più, e le dissi:
«Lei insegna in questo paese?».
Prima di rispondere, parve che chiedesse il permesso agli altri; e, quasi con pena, preoccupata di loro, rispose:
«Da tre mesi».
Aveva finito la minestra e finse d’aspettare, pensandoci, il piatto di carne.
«Ci sta male, non è vero?»
Se avesse pianto, la sua voce non sarebbe stata meno tenera, per mentire senza alcuna esitazione:
«Abbastanza bene!».
«Ci sono impiegati?»
«Meno sette od otto, vanno tutti per i monti a far carbone.»
Rispondeva così come se ci fosse stata costretta, quasi fossimo importuni; e non comprendendo la nostra curiosità. Perché le parlavamo? Mi venne voglia di smettere, per non affliggerla e offenderla anche. Ma, smettendo, non sarebbe di più umiliata? Non si fidava del tutto a parlare con noi, ma le faceva piacere; e, forse per la prima volta, ebbe come un sussulto a guardar quella gente così silenziosa e maliziosamente ostile con lei. Eppure
pensai devono essere i genitori de’ suoi alunni!
Giulio, e anch’egli non era più beffardo, le chiese:
«E’ di lontano?».
«Di Faenza.»
«Ha i genitori là?»
«La mamma sola.»
Era vero? Ci fece l’effetto che non volesse dire niente, con quella malizia antipatica e debole che imparano le donne. Io me l’imaginai quando andava a scuola: graziosa e diligente, ma un poco grossolana e furba.
Incominciò a mangiare, intimorita tutte le volte che le pareva parlassero di lei o la guardassero ironicamente.
Allora, tacemmo.
Un treno passò sul ponte, quasi sopra la nostra testa; e tutta la stanza tremò. Poi, silenzio un’altra volta.
«Piove ancora?» io chiesi al padrone. Egli aprì la porticina e disse, ma rivolgendosi ai facchini invece che a me.
«Ora viene la neve.»
«La neve?»
«Nevicherà fino a domattina.»
Io, scherzando, detti un pugno su le spalle di Giulio; e dissi:
«Domattina sarà gelo!».
La maestrina cavò dalla fascia il fascicolo, e si mise a leggere. Allora, potei conoscere il suo nome d’abbonata.
E lo dissi al mio amico:
«Si chiama Assunta».
Egli rise. Poi, io chiesi a lei:
«E’ una rassegna didattica?».
Ella la guardò, rigirandola tra le mani, come la vedesse per la prima volta; e rispose:
«Sissignore».
«E libri ne legge?»
«Qualcuno. Me li portai da Faenza».
«Romanzi?»
«Sissignore.»
La sua voce parve un fruscìo; ed ella si rimise a leggere, quantunque le avessero portato un