Numeri di Mosaico Italiano by Mosaico Italiano
Mosaico Italiano ISSN 21759537, Jul 5, 2020
Sulla scia di alcuni altri numeri dedicati alla poesia italiana contemporanea, ora è la volta del... more Sulla scia di alcuni altri numeri dedicati alla poesia italiana contemporanea, ora è la volta del genovese Enrico Testa, classe 1956. Il suo primo volume, Le faticose attese (San Marco dei Giustiniani, 1988), esce con una prefazione firmata nientemeno che da Giorgio Caproni, poeta livornese che, come sappiamo, ha adottato Genova come sua «città dell’anima». Una prefazione breve e incisiva e, al contempo, un carico di responsabilità per i libri a venire.
Il suo secondo libro di poesia, In controtempo (1994), esce per Einaudi (che d’ora in poi sarà la sua casa editrice), venendo accolto con molto favore sulle pagine di L’Unità da Giovanni Giudici, il quale lo giudica un libro che si distacca «nell’orrenda babele di chiasso e chiacchere». Ed è lo stesso Giudici, in questa recensione, ad indicare già due caratteristiche importanti del poeta: il rigore e la suprema pazienza.
La sostituzione arriva nel 2001, confermando l’importanza di alcuni motivi che
ritorneranno anche nei libri successivi, seppur con dei mutamenti, anche di tono: il
paesaggio umano, la pluralità di voci, il rapporto con le persone scomparse, i piccoli
animali, la figura dell’altro, i fili sfilacciati della memoria. Tutti aspetti, questi, che mettono al centro della sua poesia l’esperienza, la sua percezione e i suoi effetti.
I pluripremiati Pasqua di neve (2008) e Ablativo (2013) consolidano ulteriormente la figura di Testa nel panorama poetico italiano. A proposito della pubblicazione del secondo, Alberto Asor Rosa afferma sulle pagine di La Repubblica: «[s]i capisce così che, sperimentalmente parlando, la ricerca di Testa, mentre s’impernia decisamente sul disagio contemporaneo, ne addita al tempo stesso il superamento, inaugurando la proposta di una poesia che, più che dire, addita con esattezza millimetrica le condizioni attuali del nostro esserci – e il loro circostanziato espandersi nel mondo».
L’«andare a pezzi», riscontrato nei libri precedenti, si conferma dunque in Cairn, pubblicato nel 2018. Dopo trent’anni di scrittura poetica, forse qui c’è un passaggio decisivo, un ciclo che si chiude, per aprirsi, chissà, a futuri percorsi.
I saggi qui raccolti testimoniano con le loro acute letture critiche la forza di questa scrittura e di un accento ormai riconoscibile. Ringraziamo per la collaborazione Fabio Moliterni, Paolo Zublena, Fabio Pierangeli, Lucia Wataghin, Patricia Peterle, Sebastiana Savoca, Luiza Faccio e Prisca Agustoni. E in chiusura, un piccolo registro degli ultimi viaggi di Enrico Testa in Brasile.
Mosaico Italiano ISSN 21759537, 2020
Covid, “tempesta perfetta” nata dall’uomo
di Paolo Cacciari
Questo articolo, pubblicato su Il f... more Covid, “tempesta perfetta” nata dall’uomo
di Paolo Cacciari
Questo articolo, pubblicato su Il fatto quotidiano del 15 maggio, è stato letto dal poeta Valerio Magrelli nella serie di video “Krisis - Tempos de Covid-19 a cura dei direttori di Mosaico Patricia Peterle e Andrea Santurbano. Ne parliamo in questo numero, dove gli articoli sul viaggio raccontano il desiderio di ripartenza a tutti i livelli, con la speranza che la seconda strada auspicata da Cacciari sia un effettivo cambio di rotta a livello mondiale.
Noto una rimozione, una vera repulsione – anche tra i più obiettivi commentatori – nel considerare la pandemia da Sars-Cov-2 per quello che è: l’ennesimo sintomo della rottura dei cicli vitali della biosfera. Esattamente come lo sono il surriscaldamento dell’atmosfera, l’acidificazione degli oceani, la perdita di fertilità dei suoli e le varie forme di inquinamento delle matrici ambientali. Eppure non occorre essere scienziati per capire che la Terra non regge la pressione di 7,4 miliardi di individui homo sapiens che allevano e mangiano 1,5 miliardi di bovini, 1,7 miliardi di ovini e caprini, 1 miliardo di suini, 1 miliardo di conigli, 52 miliardi (sì, avete letto giusto) di avicoli, oltre a 80 milioni di tonnellate di pesce d’allevamento. Aggiungiamoci un numero non precisato di cani, gatti e di animali selvatici come pagolini, serpenti, pipistrelli, scimmie e il quadro si completa. Questo “regime alimentare” ha una doppia conseguenza: estendere il terreno agricolo occupato da pascoli e da produzioni di mangimi, riducendo di conseguenze gli habitat naturali utili alla vita delle specie animali selvatiche; creare un serbatoio ideale di coltura di virus pronti al “salto di specie” (spillover). Ci si dimentica in fretta, ma le malattie di origine zoonotica negli ultimi decenni sono sempre più frequenti e virulente. Le ricordo alla rinfusa: Hiv, Ebola, Febbre gialla, Sars, encefalopatia spongiforme bovina (mucca pazza), afta epizootica, influenze suine e aviarie. I microorganismi supportano tutte le forme di vita, ma fattori antropogenici (come il cambiamento d’uso del suolo combinato al cambiamento climatico) alterano gli equilibri ospite-simbiote, modificando le risposte ai patogeni, indebolendo i sistemi immunitari, facilitano invasioni batteriche lungo le catene trofiche che legano ogni forma di vita. Durante questa pandemia è stata data la parola a esperti di tutte le discipline mediche e sociali, a pochi biologi e a nessun ecologo. Hanno scritto tre professori dell’Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), Josef Settele, Sandra Díaz, Eduardo Brondizio, Peter Daszak: “La di-lagante deforestazione, l’espansione incontrollata dell’agricoltura, l’agricoltura intensiva, l’estrazione mineraria e lo sviluppo delle infrastrutture, così come lo sfruttamento delle specie selvatiche hanno creato una ‘tempesta perfetta’ per la diffusione di malattie dalla fauna selvatica all’uomo”
[... ]Domandiamoci perché è così difficile riconoscere le cose semplici che si rivelano nella loro evidente casualità. Ci abbiamo messo quarant’anni per capire che bruciare d’un colpo le riserve di fossili accumulate qualche centinaia di milioni di anni fa nel sottosuo-lo avrebbe alterato la composizione chimica della atmosfera provocando l’effetto serra e l’inquinamento da polveri sottili inalabili. Quante pandemie dovremmo passare ancora per capire che è necessario restituire ai dinamismi vitali naturali almeno il 50 per cento della superficie terrestre e dei mari, come chiede l’Half-Earth Progject – che è poi uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu? L’alternativa che ci offre il business as usual è:sterminare tutti gli animali selvatici o vivere dentro uno scafandro sterile. C’è una via diuscita alla orrida distopia: trovare un’equilibrata convivenza tra tutte le specie viventi.
Mosaico Italiano, ISSN 21759537, 2020
La tessitura dei rapporti letterari tra Italia e Brasile è testimoniata da una lunga e suggestiva... more La tessitura dei rapporti letterari tra Italia e Brasile è testimoniata da una lunga e suggestiva tradizione di scambi e influenze reciproche, che attraversa epoche e generi. Le forme e gli esiti attuali di questo dialogo confluiscono in un discorso confidente e ininterrotto che, ben consapevole del valore contestuale e contemporaneo della propria odierna fisionomia -come emerge con chiarezza nell’intervista rilasciata dalla poetessa e intellettuale Vera Lúcia de Oliveira - continua ad interrogarsi e a definirsi nell’indagine dei presupposti storici che lo hanno determinato.
I contributi che vengono proposti, eterogenei per epoche e volutamente trasversali a diversi contesti di studio, si avviano idealmente con l’introduzione al lavoro di traduzione dei sonetti di Camōes curata da Federico Bertolazzi, che restituisce voce ed attualizza la relazione tra modello petrarchesco italiano e fisionomia petrarchista e arcadica della poesia lusofona a partire dal maturo Cinquecento.
Tuttavia, nel procedere dalla Modernità alla Contemporaneità, un ruolo sempre più centrale in questo dialogo è stato giocato tanto dagli aspetti alti ed ufficiali della cultura, della letteratura e dell’arte italiana, quanto pure da accezioni più popolari di queste medesime voci, come del resto già avevano efficacemente affermato Emilio Franzina e Antônio Hohferdt nel volume di Jean-Jacques Marchand sugli esiti letterari dell’emigrazione italiana. La dimensione popolare, filtro particolarmente efficace sin dall’avviarsi dell’Emigrazione Storica italiana, a cavallo tra Otto e Novecento ha acquisito la capacità di agevolare e innescare scambi anche tra le culture ufficiali dei due paesi, divenendo spesso il presupposto e la circostanza della diffusione capillare della letteratura italiana stanziale in terra americana. Sottolinea questa dimensione il contributo di Rino Caputo intorno al libro di Michele Gialdroni, Carcamani, in cui si ricostruiscono le rotte che la letteratura italiana ufficiale protonovecentesca percorre a partire dagli identici percorsi dell’Emigrazione Storica in terra sudamericana.
Se dunque il Novecento, nella sua complessità di laboratorio culturale, politico, economico e sociale, è stato l’alveo in cui si sono rovesciate le logiche antiche e le precedenti fisionomie degli equilibri tra Italia e Brasile, tra i principali mediatori di questi complessi momenti di contatto si deve certamente ascrivere Ruggero Jacobbi. Rodolfo Sacchettini ne descrive qui l’attività di mediazione tra le due tradizioni, sottolineando la centralità riservata alle produzioni dall’anima maggiormente popolare e divulgativa, come quella drammaturgica e dei radiodrammi, e rivelando come per questa via abbia contribuito alla diffusione della conoscenza di autori fino a quel momento poco noti in Italia come Augusto Boal.
Non meno significativa, ancora nel medesimo passaggio tra i due secoli, si rivela la la pratica traduttiva del patrimonio letterario brasiliano in Italiano. Ne fornisce qui testimonianza la complessa vicenda editoriale della traduzione di Vidas secas di Graciliano Ramos, che occupa buona parte del secolo scorso (1938-1998), e che sfocia in un coincidente esito d’elezione della ricezione ramosiana in quegli stessi linguaggi visivi e drammaturgici già prediletti nella mediazione di Jacobbi.
C’è dunque nella matrice divulgativa di questi linguaggi -non esclusivamente volano della cultura popolare cui certamente si riferiscono, ma anche facilitatori delle istanze più colte dei contesti di riferimento- una conferma di reciprocità negli immaginari e nelle condizioni di avvio delle tradizioni di cui sono specchio. È proprio questa dimensione, secondo le teorie più recenti6, che deve essere indagata per poter fornire un efficace strumento di conoscenza delle dinamiche che pervadono l’attuale condizione della produzione anche di origine brasiliana e di espressione italiana. Illustra questa felice intuizione il contributo di Teresa Fiore, che a partire dalla duplicazione degli immaginari, dalla loro reciprocità e dalla stereotipia in cui si formalizzano e che li genera, fornisce una efficace lente d’indagine della dimensione transnazionale e diasporica della produzione odierna, inserendo l’antica relazione tra i due paesi nel bel mezzo della più urgente riflessione letteraria internazionale.
Alessandra Mattei
Mosaico Italiano, ISSN 21759537, 2020
Qualche settimana fa erano i tempi dell’epidemia. Ora sono quelli della pandemia che affligge i t... more Qualche settimana fa erano i tempi dell’epidemia. Ora sono quelli della pandemia che affligge i territori più diversi e distanti: non ci sono frontiere, la globalizzazione espone la sua fragilità. Una specie di nuvola trasparente e letale continua a diffondersi e a spostarsi. Anzi, si sposta insieme ai nostri movimenti, siamo noi – è il nostro corpo – l’host del virus incontrollabile. Esso si nutre anche di un aspetto che è intrinseco all’uomo, cioè il suo essere socievole: l’incontro con gli amici, lo scambio di due chiacchiere, la pausacaffé al bar o l’aperitivo dopo il lavoro. Eppure – come sappiamo e non possiamo negare – siamo una razza umana diventata di un egoismo atroce. E questo non lo possiamo più
nascondere! Accettare di essere disumani, a volte incredibilmente disumani, perfino in contesti quasi insignificanti, forse è il primo passo verso un ripensare il nostro avvenire.
Neghiamo ciò che siamo, neghiamo a vari livelli che viviamo quasi in un regime di schiavitù: dal bambino che non ha mai il tempo libero di stare con se stesso, perché oltre alla scuola, deve fare l’inglese, deve fare sport, musica, sottoposto, insomma, ad un regime settimanale il cui programma recita “il tempo dev’essere sempre occupato”, all’adulto,
per cui, in qualche caso, si potrebbe parlare perfino di un’ossessione malata verso il riempimento di questo demone del tempo. Sappiamo stare con noi stessi? Sappiamo convivere con i nostri cari, che ora ci stanno più vicini che mai, seppur nella distanza fisica? Sono domande da porsi dinnanzi a tutto ciò che sta succedendo, ma soprattutto davanti al silenzio inquietante che invade le nostre anime, abitanti in un mondo che è diventato assordante.
Sentire la voce del silenzio, del dolore, dei sentimenti. C’è senza dubbio un silenzio lacerante che occupa una miriade di foto e immagini che ci resteranno nella memoria – speriamo che anche queste non vengano divorate dalla frenesia verso un futuro ancora più instabile. Il silenzio è per esempio presentato in una serie di immagini che hanno girato il mondo, immagini quasi urlanti. Pensiamo alle vie di New York, al loro tran tran diurno e notturno, e a quel vuoto che ora ci invade, penetra “nell’ossa”, per ricordare i versi di Giorgio Caproni. Pensiamo ai camion dell’esercito, uno dietro l’altro, in fila lunghissima lungo via Borgo Palazzo, a Bergamo, epicentro della pandemia in Italia. Oppure alle immagini altrettanto impressionanti degli spazi fieristici di Madrid, ora
adibiti e trasformati in ospedale da campo, il più grande d’Europa, con 5.000 letti.
E poi i numeri: dei contagi, dei guariti, dei morti. Ma dietro ai numeri, che servono per le statistiche (ovviamente importanti), ci sono percorsi di vita, desideri, piani, affetti, memorie che all’improvviso sono stati anestetizzati, quando non definitivamente spenti.
Non è dunque possibile negare questa realtà che ora ci mostra il suo volto surreale, iperreale. È pertanto fondamentale più che mai combattere i nemici della nostra umanità, sentire tutti i silenzi piacevoli e non, lottare per il diritto alla vita, pensare all’altro, affrontare le nostre debolezze e paure.
Questo numero di Mosaico vuole offrire con i testi qui raccolti un momento di riflessione e registrare quest’esigenza facendo ricorso alla memoria letteraria e alla capacità della scrittura di investire i luoghi di un sentire più umano. Un grazie particolare a Luca Di Fusco per l’immagine di copertina che così spiega: «Da una settimana ho ricominciato a dipingere, l’ho fatto in questi giorni di quarantena pensando che mi sarebbe piaciuto essere un medico o un infermiere o uno scienziato, solamente per poter contribuire alla sconfitta di questo maledetto Coronavirus. Ma non ho nessuna di queste qualifiche, ho solo la dote della pittura e così ho deciso di liberare le mie mani sulla tela. L’unico modo che noi abbiamo per poter aiutare a combattere questo virus è quello di restare a casa dimostrando tutto l’amore che abbiamo per noi, per i nostri cari e, soprattutto, per la vita stessa. Solo con l’amore che abbiamo per la nostra Italia, il Covid-19 resterà una brutta pagina daleggere nei nostri libri di storia. Uniti tutti insieme ce la faremo».
Mosaico Italiano, ISSN 21759537, 2020
Come già annunciato due mesi orsono, in occasione dell’uscita del primo numero
sul tema, diamo co... more Come già annunciato due mesi orsono, in occasione dell’uscita del primo numero
sul tema, diamo continuità alla pubblicazione di saggi dedicati allo scrittore italo-
argentino Juan Rodolfo Wilcock, frutto del bellissimo convegno a lui dedicato
dall’Università d’Annunzio di Chieti, il 5-6 dicembre scorso, con l’organizzazione di
Andrea Gialloreto e Stefano Tieri, nell’ambito del progetto internazionale “Archivi
reali e immaginari tra Italia e America Latina”. Vogliamo recuperare in questa
circostanza parole già allora usate per presentare l’opera poliedrica di un autore
tanto straordinario quanto scomodo e irriverente.
Apolide letterario, iconoclasta dei generi, reinventore del quotidiano, umorista
allucinatorio, virtuoso del concetto, deformatore grottesco, riscrittore di se stesso,
satiro iperbolico, creatore di critici eteronomi, lettore eterodosso dei segni del
tempo, Wilcock si trasferisce definitivamente in Italia cominciando a scrivere in
italiano e entrando a far parte a tutti gli effetti della storia letteraria del belpaese,
alla fine degli anni Cinquanta, con una serie già considerevole di opere scritte o
pubblicate in spagnolo, che vanno dalla poesia, alla prosa, al teatro. Costruendo
un collage di citazioni tratte dai saggi di questi due numeri, si può affermare che
«accanto al “trasloco reale di casa, lingua, cultura” (che però significherà per lui,
in perfetta coerenza con l’immagine di sé che ci ha lasciato, muoversi all’insegna
della sinergia, della contaminazione, dell’osmosi, pur dentro una visione se non
propriamente polemica, naturalmente anticonformistica) agisce in Wilcock un’altra
e più intima specie di trasloco, che coinvolge la sua letteratura dall’interno:
quella della transazione, all’insegna di un’intertestualità endogena, che trascorre
lungo i diversi livelli dell’autocitazione e della riscrittura vera e propria». E nella
grande opera creativa che viene così a costituirsi l’autore giunge a toccare «tutte
le corde di uno strumento espressivo tanto personale quanto evocativo delle
“dissonanze” epocali di cui il Novecento si è fregiato: dall’invettiva al grottesco,
dal fantastico all’assurdo, dal macabro allo gnomico, dal lirismo agli algori della
matematica e della filosofia del linguaggio».
In questo secondo numero dedicato a Wilcock l’accento è posto, più specificamente,
sulla sua attività di critico e recensore, sul particolare rapporto con macchine
e dispositivi secondo quanto si evince da alcune sue pagine narrative e sul
suo personale laboratorio poetico a cavallo tra due (e più) culture.
In chiusura, una metodologia di studio del tutto originale sulla figura di uno scienziato,
naturalista e botanico, Domenico Agostino Vandelli, che sarebbe senz’altro
piaciuto allo stesso Wilcock, per un duplice motivo: in primo luogo perché
ne segue lo stesso cammino seppur inverso, nato cioè in Italia e poi trasferitosi
all’estero – in questo caso il Portogallo, acquisendo a tutti gli effetti cittadinanza
culturale in ambito luso-brasiliano; in secondo luogo perché potrebbe anche lui
annoverarsi – giocando per un attimo tra realtà e finzione – tra le famose gallerie
wilcockiane di scienziati e inventori.
I segni del tempo: frammenti di un discorso (in)civile
Seguito da: Tre articoli da «La Voce Repubblicana» di Juan Rodolfo Wilcock
Andrea Gialloreto
Le inquisizioni del Wilcock critico
Luciana Pasquini
Narrativa e dispositivo in Juan Rodolfo Wilcock
Kelvin Falcão Klein
“Chi non ha nome non può morire”: intorno alla poesia di Wilcock
Patricia Peterle
Domenico Vandelli in storie a fumetti. Un nuovo approccio metodologico nello studio della
scienza moderna
Ricardo Dalla Costa
Mosaico Italiano, ISSN 21759537, 2020
Il numero di Mosaico che viene presentato in questa sede è dedicato al progetto Il realismo
magic... more Il numero di Mosaico che viene presentato in questa sede è dedicato al progetto Il realismo
magico oggi. Sguardo incrociato sul Novecento e la contemporaneità che intende
aprire una finestra sui grandi problemi di oggi utilizzando l’eredità di narrazioni e scritture
del secolo passato in maniera da leggere il presente con uno sguardo al futuro.
L’obiettivo è quello di tracciare un percorso che veda come attori principali alcuni
grandi protagonisti della nostra contemporaneità che con loro attività contribuiscono
a scrivere il presente partendo dalla categoria del realismo magico.
La metodologia predominante che verrà utilizzata per sviluppare il progetto
sarà quella della intervista letteraria. L’intervista letteraria che indaga più di altre
forme sull’opera di uno scrittore, secondo quanto afferma una piccola bibliografia
sull’argomento, si sarebbe andata costituendo nel tempo come un genere letterario:
è una idea forse dettata dall’intento di conferire dignità e concretezza a una tecnica
mista, che rinchiude in sé l’informazione e la critica, l’oralità e la sua trascrizione. Se
infatti si assume come necessaria a descrivere il genere la compresenza vis à vis di
un giornalista, o di un critico, e dello scrittore di volta in volta interpellato, entrambi
impegnati in una conversazione finalizzata a indagare un testo e ambientata in uno
spazio comune dovremmo allora escludere che appartenga al genere dell’intervista
letteraria una sequenza di domande e risposte scambiate per telefono, o inviate
tramite Internet, con relativo sacrificio della possibilità di indicare sulla pagina
il passo cui ci si riferisce, rinunciando a un contraddittorio diretto, a ogni forma di
complemento gestuale al discorso di entrambi i locutori, e persino alla certezza di
essere in relazione proprio con la persona desiderata piuttosto che con uno dei suoi
portavoce accreditati. Sempre più spesso, d’altronde, l’abitudine a schiacciare su un
presente immediatamente a portata di stampa ogni riepilogazione del passato e ogni
proiezione nel futuro scoraggia il rituale dell’incontro per sostituirlo con comunicazioni
affidate a supporti telematici.
Non è un caso che l’intervista letteraria nasca come genere in Francia, alla fine del XIX
secolo (quando il romanzo contava già su trionfi consolidati) avendo come precedente
giornalistico i dibattiti politici che comparivano sui giornali americani da cinquant’anni,
e come mediazione ideale i Colloqui di Johann Eckermann con Goethe, che portavano
notizie della sua vecchaia e nutrimenti alla leggenda che da allora ne circondò il nome.
Partendo da queste considerazioni il progetto vuole aprire uno squarcio sul multiforme
mondo della scrittura contemporanea italiana a partire da una chiave di lettura
costituita come abbiamo detto in precedenza dalla categoria del realismo magico per
toccare i grandi temi della esistenza umana.
Saranno, pertanto, realizzate una serie di videointerviste dedicate a uomini di cultura
viventi. Le videointerviste saranno pubblicate su un portale dedicato all’iniziativa
denominato MARWIT (Magic Realism in the wind of time) che sarà in linea dal mese di
aprile 2020.
In questo contesto verranno presentati prossimamente altri contributi e profili di
grandi personaggi della nostra cultura, da scrittori a poeti, da registi a storici che con
la loro attività contribuiscono a scrivere pagine memorabili del nostro mondo.
In questo numero il focus è stato posto su Gabriele Lavia, Attore e Regista, che con la
sua attività scrive e disegna un mondo fantastico che penetra in profondità i segreti
dell’uomo toccando corde e sensibilità che solo un grande intellettuale del nostro
tempo può riuscire ad afferrare.
A colloquio con Gabriele Lavia tra realismo e sogno
Intervista realizzata presso il Liceo Scientifico Statale “Vito Volterra” di Ciampino con la produzione
Arpafilm di Paola Populin
Giovanni La Rosa
“Un classico è un sole che non tramonta mai”. Quando i classici parlano di noi
Evelina Di Dio
Un mio ritratto di Gabriele Lavia
Giovanni Antonucci
La trilogia pirandelliana di Gabriele Lavia e la morte del teatro
Lucilla Bonavita
Breve profilo di Gabriele Lavia
Giovanni La Rosa
Silvio D’Arzo: un estraneo in casa d’altri
Luca Latini
Mosaico Italiano, ISSN 21759537, 2020
Apolide letterario, iconoclasta dei generi, reinventore del quotidiano, umorista
allucinatorio, v... more Apolide letterario, iconoclasta dei generi, reinventore del quotidiano, umorista
allucinatorio, virtuoso del concetto, deformatore grottesco, riscrittore di se stesso,
satiro iperbolico, creatore di critici eteronomi, lettore eterodosso dei segni del
tempo: sono solo alcune delle definizioni, proposte nei saggi a seguire, e in altri
che saranno ospitati in un prossimo numero, che disegnano la figura eccentrica
e poliedrica di Juan Rodolfo Wilcock, autore argentino naturalizzatosi italiano. E
nello scollinare la soglia di questo nuovo anno, Mosaico può celebrarne un centenario
anomalo, diciamo un 2019+1, alla maniera del 1912+1 sciasciano modulato
da D’Annunzio, o del 18 trasformato in 1+8 di un ex giocatore sudamericano (così
rimaniamo dentro i nostri confini di testata), che era un altro modo per vestire il
9 destinato ad un suo più illustre collega di team, Ronaldo (il Fenomeno). Ecco,
magari questa commistione, un po’ sacrilega e irriverente, potrebbe ben interpretare
lo spirito del nostro.
Wilcock si trasferisce definitivamente in Italia cominciando a scrivere in italiano e
entrando a far parte a tutti gli effetti della storia letteraria del belpaese, alla fine
degli anni Cinquanta, con una serie già considerevole di opere scritte o pubblicate
in spagnolo, che vanno dalla poesia, alla prosa, al teatro. Ma «accanto al “trasloco
reale di casa, lingua, cultura” (che però significherà per lui, in perfetta coerenza
con l’immagine di sé che ci ha lasciato, muoversi all’insegna della sinergia,
della contaminazione, dell’osmosi, pur dentro una visione se non propriamente
polemica, naturalmente anticonformistica) agisce in Wilcock un’altra e più intima
specie di trasloco, che coinvolge la sua letteratura dall’interno: quella della transazione,
all’insegna di un’intertestualità endogena, che trascorre lungo i diversi
livelli dell’autocitazione e della riscrittura vera e propria». E nella grande opera
creativa che viene così a costituirsi l’autore giunge a toccare «tutte le corde di
uno strumento espressivo tanto personale quanto evocativo delle “dissonanze”
epocali di cui il Novecento si è fregiato: dall’invettiva al grottesco, dal fantastico
all’assurdo, dal macabro allo gnomico, dal lirismo agli algori della matematica e
della filosofia del linguaggio».
Le citazioni utilizzate sono già debitrici dei saggi qui raccolti, nonché di un prossimo
dossier sull’autore a cura di Andrea Gialloreto, incentrati su alcuni snodi critici
e tematici che attraversano sincronicamente e sinergicamente la produzione
wilcockiana. Sono essi riassumibili in alcuni poli di tensioni: quale realtà? quale
lingua? quale autorialità? quali frontiere? Oppure, basterebbe rimescolarli tutti
nei versi autografi riportati nel titolo.
Abbiamo lasciato per ultimo i dovuti crediti: questo numero non esisterebbe senza
il bellissimo convegno su Wilcock organizzato all’Università d’Annunzio di Chieti,
il 5-6 dicembre scorso, da Andrea Gialloreto e Stefano Tieri, nell’ambito del
progetto internazionale “Archivi reali e immaginari tra Italia e America Latina”. I
testi qui riuniti rappresentano appunto il primo risultato delle intense giornate
di discussione tra alcuni dei maggiori specialisti dell’opera wilcockiana. Buona
lettura, allora, e buon 2020!
Wilcock e l’unicorno metabolico
Roberto Barbolini
L’«Affondamento» di Robinson
Srecko Jurisic
La reinvenzione del quotidiano, tra cronache, microstorie e vite immaginarie
Andrea Santurbano
L’abominevole realtà?
Giorgio Nisini
Gli avverbi di Wilcock
Raffaele Manica
L’altra lingua di J. Rodolfo Wilcock
Marco Carmello
Tradurre, tradursi
Roberto Deidier
L’autotraduzione nella produzione letteraria di Wilcock: descrizione di un problema
Jeremías Bourbotte
La Roma di Wilcock tra i «candelieri d’oro» e la «palude eterna»
Daniel Raffini
Mosaico Italiano, ISSN 21759537, 2019
A cura di Paolo Rigo
Letteratura e memoria creano un nesso davvero saldo della coscienza dell’uom... more A cura di Paolo Rigo
Letteratura e memoria creano un nesso davvero saldo della coscienza dell’uomo:
alla memoria si deve la scrittura di opere immortali della Storia, quali furono.
«Cessate d’uccidere i morti». Tempo della memoria e memoria dell’oblio tra Primo Levi
e Giuseppe Ungaretti
Marilena Ceccarelli
Descrivere e riscrivere l’inferno: Primo Levi e Peter Weiss di fronte ad Auschwitz
Carlota Cattermole Ordóñez
Il rovescio della memoria: I sommersi e i salvati di Primo Levi
Emiliano Ventura
Mai abbaiando tra i cani: Patronimico, Shoah e antisemitismo ne ‘I Cani del Sinai’ di
Franco Fortini
Riccardo Deiana
I colori della metà irrazionale: lo spettro cromatico in ‘Ad ora incerta di Primo Levi’
Giulio Carlo Pantalei
le Confessioni di Agostino e ancora il celebre (e quasi canonico) romanzo
di Proust. Il meccanismo memoriale che è alla base della costante attività del
protagonista della Recherche, riflette e attraversa tempo e generi: cos’è la Vita
nova senza la camera della memoria da cui nasce il ricordo operoso e attivo
di Beatrice? Cosa sono, per restare ancora nella tradizione letteraria italiana,
i Rerum vulgarium fragmenta se non il ricordo di un pentimento passivo e mai
davvero esaurito ma lontano sì dalla voce dell’io lirico che sconta i suoi peccati
ormai lontani negli anni? Talvolta nel corso dei secoli, la memoria e la scrittura
che dà sfogo al ricordo si intrecciano riconoscendo, de facto, al destino del
singolo un valore emblematico. Sarà difficile crederlo per un lettore che non
è avvezzo al mondo medievale, ma, dopotutto, la disperata consolazione di
Boezio, incarcerato per le sue idee e per il suo essere “romano” in un mondo
“barbaro”, è solo apparentemente il grido di disperazione del singolo; dietro
Boezio vi è la trasformazione (e anche la rottura) di un equilibrio sociale. Il mondo
è cambiato. L’impero è caduto. Il pianto dell’uno si riflette sul dramma dei
molti. L’io è protagonista e testimone della tragedia.
Secoli dopo, quanto vissuto da Primo Levi e da altre milioni di persone segna
tanto una pausa evolutiva quanto una lacerazione profonda nella Storia
dell’uomo. Ecco la Shoah. Ecco che Levi nel doppio ruolo di osservatore e protagonista
è costretto a chiedersi se l’uomo – ma non il carnefice, piuttosto il
complice passivo costretto alla fame nei campi di concentramento – sia davvero
un uomo. Non diversamente, uno scrittore europeo (oggi quasi per nulla
letto in Italia), quale fu Stefan Zweig, prima che l’orrore si consumasse si chiedeva
le ragioni che avevano portato la società tedesca sul baratro di una crisi
etica inspiegabile. La risposta di Zweig fu il silenzio: scelse, infatti, la strada
del suicidio. Levi, invece, decise che era necessario raccontare, trasmettere,
descrivere, narrare. Obiettivo dei saggi che ho avuto il piacere di raccogliere in
questo numero di “Mosaico” è di offrire una riflessione memoriale sull’evento
catastrofico-centrale della vita di Levi: la Shoah. E quale occasione migliore
di un centenario? Del primo centenario dalla nascita di Levi? Il numero – per
il quale sono grato all’amico Fabio Pierangeli, è dedicato agli stessi autori che
hanno raccolto il mio invito a collaborare – assume una dimensione duplice,
micro e macroscopica: i saggi di Marilena Ceccarelli e di Giulio Carlo Pantalei,
che aprono e chiudono il volume quasi sigillandolo, sono dedicati alla produzione
poetica di Levi (la meno celebre, viene esaminata con prospettive e
attenzioni differenti); Cattermole Ordóñez descrive l’“inferno” di Primo Levi
e di Peter Weiss secondo una chiave “dantesca”; Emiliano Ventura offre una
disamina de I sommersi e i salvati, scorgendo interessanti parallelismi con Jean
Améry; Riccardo Deiana, infine, dedica un interessante saggio al problema
dell’ebraismo in Franco Fortini. L’augurio per il lettore e per chi ha partecipato
al volume è che anche attraverso queste scritture si possa tanto continuare
a cercare la Verità, quanto con essa provare a valorizzare una Memoria che,
nei giorni in cui si licenzia questo numero di Mosaico, appare troppo spesso relegata al pericoloso oblio.
Mosaico Italiano, ISSN 21759537, 2019
Luoghi, storia e memoria:
l’arte e le mediazioni col reale
Agli occhi del passante o turista fret... more Luoghi, storia e memoria:
l’arte e le mediazioni col reale
Agli occhi del passante o turista frettoloso è appena un’anticamera o una sorta
di area di disimpegno della celebre e imponente Piazza Duomo a Milano; eppure,
nel prossimo mese di dicembre verranno celebrati i cinquant’anni da che
è diventata simbolo di qualcosa di diverso e di tremendo. Parliamo di Piazza
Fontana, dell’esplosione della bomba all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura,
che dilaniò a morte 17 persone, lasciandone molte altre ferite. Luogo,
dunque, che si è caricato di storia, marcando idealmente l’inizio degli anni
di piombo e della cosiddetta strategia della tensione, che si sarebbe protratta
fino al 1980, quando un’altra esplosione devastante lascerà 85 morti nell’atrio
sventrato della stazione di Bologna. Luogo marginale, quasi insignificante, ma
di cui basta il nome per riaprire una breccia memoriale, come suggerisce una
bella poesia di Giovanni Raboni.
E questo vuole essere solo un esempio di quello che nelle pagine di un libro si
trasforma, per dirla con Bachtin, in un cronotopo; cioè, in quel punto di congiuntura
spazio-temporale tra autore e realtà che impregnano l’opera dei motivi
che la caricano di significati circostanziali, e dove quindi l’artistico e il letterario
lasciano la loro impronta e si pongono come privilegiata chiave di lettura
e riflessione. Scrive Friedrich Dürrenmatt: “L’arte, la letteratura, sono, come
qualunque altra cosa, un confronto col mondo. Una volta afferrato questo, ne
potremo intravedere anche il senso”.
Spazi – urbani principalmente, ma non solo – e tempi – della cronaca e della
storia –, riletti dal filtro dell’arte e della letteratura, sono appunto le coordinate
che orientano i saggi qui presentati: da uno spaccato londinese di Michelangelo
Antonioni, percepito attraverso le mediazioni tra racconto, foto e cinema,
alla Ferrara di Bassani nella sua mediazione con la pittura di Morandi; dagli
itinerari che segnano l’esperienza traumatica di Primo Levi, dentro e fuori i
campi di concentramento, alla Napoli del dopoguerra colta dalla penna incisiva
di Clarice Lispector; dalla Milano, come detto, di Giovanni Raboni, ma anche
di Michele Mari, alla Venere di Rivoli (o degli Stracci) di Michelangelo Pistoletto
riproposta nella poesia di Enrico Testa. Contaminazioni tra linguaggi diversi
e, a volte, complementari che ci obbligano a riconsiderare costantemente il
nostro rapporto con una realtà sempre in via di definizione.
Visualizzazione percettiva: uno sguardo su Blow-Up di Michelangelo Antonioni
Thaís Aparecida Domenes Tolentino
Muri, giardini e confluenze tra la scrittura di Bassani e la pittura di Morandi
Izabel Dal Pont
Il camminare nell’opera di Primo Levi
Helena Bressan Carminati
“Qui, tutto ha un colore sbiadito…”: Napoli nella corrispondenza di Clarice Lispector
Luigia De Crescenzo
La storia “dove forse non c’è”
Elena Santi
Sto “con i mattoni cotti nella fornace comune”: Enrico Testa
Luiza Kaviski Faccio
Recensione
Alla riscoperta di Ercole Patti
di Franco Zangrilli
Mosaico Italiano, ISSN 21759537, 2019
2175-9537
Un pacchetto di Gauloises.
Guido Morselli, «lui ci manca»
La biografia narrativa di Lin... more 2175-9537
Un pacchetto di Gauloises.
Guido Morselli, «lui ci manca»
La biografia narrativa di Linda Terziroli, Un pacchetto di Galuloises, edita da
Castelvecchi, permette di tornare a parlare di Guido Morselli, scomparso
nel 1973. Il titolo allude all’ultima istantanea della narrativa dello scrittore
varesino, in Dissipatio H.G: l’attesa speranzosa, non priva di indizi concreti,
la sigaretta appunto, di incontrare di nuovo l’unico vero amico di sempre, il
dottorino Karpinski, e fumare con lui, scambiare delle parole, forse abbracci,
in quel clima apocalittico, in cui tutto il genere umano sembra scomparso,
evaporato. Ed uno solo, il protagonista, il malcapitato, o il fortunato, rimasto
l’unico a poter raccontare, da morto, da vivo?!, quella atmosfera straniante.
Karpinski, come Cristo nella trilogia di Fede e critica, gli manca.
La biografia della Terziroli, come l’articolo donato a Mosaico dalla storica
curatrice delle opere di Morselli, Valentina Fortichiari, testimonia che figure di
intellettuali nobili, non allineate, originali, ci mancano.
Non a caso, su tematiche contemporanee, agli articoli dedicati a Morselli,
ne seguono due su scrittori, per diversissime ragione, tra i pochi ad
accostarsi ad un pensiero libero come quello di Guido: Giuseppe Yusuf
Conte e Eraldo Affinati.
I brani seguenti dal Diario di Guido Morselli offrono diversi spunti di attualità,
anche per l’inizio del nuovo anno accademico e scolastico:
Mi piace l’intelligenza autonoma. Autonoma anche dall’attualità della
cultura. Mi piace l’intelligenza perfino svincolata dall’informazione.
Mi danno fastidio le intelligenze nelle quali il primo ruolo è assegnato
all’aggiornamento. La presenza troppo affiorante della cultura eccessivamente
aggiornata toglie al talento l’attributo universale, lo trasferisce
(e lo riduce) al particolare. Il nostro secolo, ricchissimo di informazioni
ovviamente nuove, ha un umanesimo più pregno di aggiornamenti
culturali che di intelligenza”.
L’erudizione è un possesso statico, acquisito una volta per tutte, che una
salda memoria basta a conservare. La cultura dell’individuo è sempre sul
farsi, o non è. L’uomo colto non è chi sa, ma chi apprende.
Cólto – e non puramente erudito, quantunque “sappia”molte cose – è
l’uomo che sente il dovere di alimentare il proprio spirito assiduamente,
quotidianamente: e che adempie a questo dovere verso di sé con diligenza,
con tenacia, quali che siano (e magari avverse, impropizie) le circostanze in
cui si trova a vivere.
Leggere Guido Morselli oggi
Valentina Fortichiari
L’America, Il comunista, mio fratello
Linda Terziroli
Un lunga fedeltà. Linda Terziroli e il suo Guido Morselli
Luigi Mascheroni
Il padre, le donne, i rifiuti. Istantanee di Guido Morselli
Davide Brullo
La frusta del sadico e l’invenzione della letteratura. I senza cuore di Giuseppe Conte
Fabio Pierangeli
Dono del presente, scommessa per il futuro: “l’altra scuola” di Eraldo Affinati
Marco Camerini
Scaffale, libri e teatro
a cura di Mosaico
Mosaico Italiano, ISSN 21759537, Sep 2019
Italia e Brasile,
tra scambi e
migrazioni culturali
L’Italia e il Brasile sono tra loro profondam... more Italia e Brasile,
tra scambi e
migrazioni culturali
L’Italia e il Brasile sono tra loro profondamente legati. I nessi migratori che
hanno portato tra XIX e XX secolo numerosissimi italiani nel Gigante sudamericano
sono solamente l’ultimo anello di una catena molto stretta, socialmente stratificata
e pluriforme di relazioni culturali e politiche che percorrono l’intera epoca moderna:
confluita in un reciproco contributo, seppure con modi e tempi diversi, alla definizione
della fisionomia identitaria di entrambi i paesi attraverso la frequentazione dei propri
immaginari. Questi vincoli di prossimità, che partendo dal dettato letterario si sono
rivestiti di una valenza fieramente civile, riemergono con sorprendente vivacità in
fenomeni migratori contemporanei dalle rotte inverse.
Nel contesto letterario italiano esse si giovano di un terreno particolarmente
favorevole, che ha fornito l’humus necessario alla frequentazione del Brasile da parte
di autori italiani all’inizio del Novecento e all’insediamento di autori brasiliani in Italia
a partire dagli anni Cinquanta. Ciò è potuto accadere grazie a un’opera massiccia
di traduzioni e alla mediazione di poeti, scrittori e intellettuali come Ungaretti, che
attraversò il lustro brasiliano in una duplice riflessione sulla propria poetica e sulle
tradizioni e specificità del paese ospite; o come Ruggero Jacobbi, che sin dagli anni
Quaranta lavorò per traslare gli aspetti a suo avviso più importanti e radicalmente
qualificanti della produzione letteraria brasiliana nel contesto italiano: contribuendo
a legare alla ricerca letteraria italiana impegnata nel recupero del valore democratico
della cultura dopo la dittatura fascista, lo sforzo di molti intellettuali esuli o fuoriusciti
che in quegli anni si allontanavano dal Sud America alla volta dell’Europa per condurre
le proprie battaglie e rivendicazioni democratiche.
Se in Italia il Brasile si è mantenuto luogo e archetipo di un immaginario non solo
letterario dal processo risorgimentale ad oggi, anche l’Italia ha finito per rappresentare
per il Brasile un topos, che dopo aver incarnato un modello culturale cui esemplarsi
nel periodo delle grandi Accademie, nel corso del Novecento e dei più recenti anni
Duemila è stato tanto luogo di accoglimento di molti intellettuali esuli o dissidenti,
quanto luogo letterario simbolo della civiltà occidentale per antonomasia: erede della
classicità, che oggi soffre esposta al pericolo del declino di quella modernità di cui è
emblema; o voce corale di una natura popolare di cui l’emigrazione storica è stata
altra e complementare testimonianza.
Tutto ciò ci consegna oggi una reciprocità operante nella più importante
comunità poetica translingue d’Italia, che innesta nella produzione italiana lo specifico
portato del proprio ingaggio fieramente civile, democratico e impegnato per la lotta
ecologista.
Alessandra Mattei
INDICE
Un poeta italiano ai tropici: la San Paolo di Giuseppe Ungaretti
Ettore Finazzi-Agrò
L’Italia, la guerra e la forza in un romanzo di Boris Schnaiderman
Giorgio de Marchis
Immigranti di ieri e di oggi tra Italia e Brasile: un mosaico nel mosaico
Emilio Franzina
Un romanzo interrotto di Ruggero Jacobbi
Franzisca Marcetti
Un contadino in croce: Jacobbi, Dias Gomes e l’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato
Rodolfo Sacchettini
Relazioni letterarie nella poesia translingue di autori di origine brasiliana ed
espressione italiana. Considerazioni preliminari.
Alessandra Mattei
Recensione
Lupa in fabula, di Manuela Lunati
A cura di Yuri Brunello e João Francisco de Lima Dantas
Rubrica
Amore e amante
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Settembre 2019
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Mosaico Italiano, ISSN 21759537, Aug 2019
Il linguaggio
come variabile
della società
La direzione di Mosaico ringrazia il poeta e saggista ... more Il linguaggio
come variabile
della società
La direzione di Mosaico ringrazia il poeta e saggista Beppe Mariano, da anni collaboratore
della rivista, per gli articoli legati ad uno dei più interessanti movimenti poetici
oggi in Italia: il realismo terminale che ha in Giuseppe Langella e Guido Oldani i rappresentanti
di spicco. Ne presentiamo, grazie ancora a Mariano, alcune liriche e il manifesto
del loro movimento.
Lasciamo la parola a Beppe:
«Partendo dall’assunto che il linguaggio è una variabile della società e quindi si
evolve con essa, abbiamo constatato in questi anni quanto le nuove tecnologie abbiano
influenzato la scrittura. Periodi brevi, brevissimi, forme del parlato e del mugugno
perfino, anglismi esuberanti e non necessari, neologismi disinvolti, segni grafici
d’interpunzione... e così via.
Ed è all’interno delle figure retoriche che si può meglio notare tale cambiamento per
mezzo ad esempio dell’evoluzione della metafora.
Per molto tempo si è usato, scrivendo, forme metaforiche legate ai cicli rurali e artigianali,
quali ad esempio “tessere parole”. “l’aratro dell’avvenire”, “seminare idee”
ecc. Forme metaforiche ancora in voga oggi. È solo venuta meno la metafora carducciana
del poeta paragonabile al grande artiere, probabilmente perché ha assunto un
sapore retrò di retorica esuberanza. Continuiamo invece a tener salda la metafora che
Ezra Pound aveva tratto dalla classicità al fine di equiparare la poesia di Eliot al maglio
del fabbro. […] Giacché il linguaggio è una variabile della società, possiamo chiederci
quale linguaggio possa oggi corrispondere alla frantumazione della realtà e alla sua
progressiva sostituzione con la cosiddetta realtà virtuale (ad esempio nella realtà del
computer, saremo sempre più “connessi” e “globali”: tant’è che al posto del vecchio
“sbullonarsi” dovremmo scrivere “sconnettersi”). […] La lingua nelle sue varie forme
espressive potrà ancora nominare la Natura tramite i suoi componenti (mare, cielo,
montagna, laghi, fauna, flora) come se fosse ancora completamente naturale? O non
dovrà invece testimoniare a livello poetico le intrusioni artificiali?
Già del resto il condizionamento psico-fisico che subiamo ad esempio dall’automobile
dominante è tale che quando sento pronunciare la parola “albero” penso prima
all’albero-motore della macchina.
Ugualmente auspico ogni giorno che l’orizzonte naturale e metaforico sia schiarito da
un tergi-orizzonte e che io possa così avviarmi sereno verso una cielostrada».
Buona lettura
Gli editori
INDICE
LA SIMILITUDINE ROVESCIATA O DEL REALISMO TERMINALE
Beppe Mariano
Manifesto del realismo terminale
Saliscendere la montagna della parola. La raccolta di Sergio Gallo e altre segnalazione
di poesia
Beppe Mariano
“Variazioni” di vita nei versi di Amelia Rosselli. In merito al saggio di Sara Sermini
Barbara Stazi
DOVE SORGEVA ALBA LONGA?
Intervista di Aldo Onorati a Riccardo Bellucci
Scaffale
a cura di Mosaico
Rubrica
Ultimo saluto
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Mosaico Italiano, ISSN 21759537, Jul 2019
Il pensiero italiano
contemporaneo
Sempre più filosofi italiani, nel corso degli ultimi anni, son... more Il pensiero italiano
contemporaneo
Sempre più filosofi italiani, nel corso degli ultimi anni, sono saliti alla ribalta del dibattito
internazionale, politico e culturale. Giorgio Agamben, Roberto Esposito, Emanuele
Coccia, solo per citare alcuni nomi, sono ormai punti di riferimento nelle bibliografie
di molte istituzioni accademiche, dentro e, soprattutto, fuori dall’Italia. La letteratura
e l’arte in generale possiedono spesso il proprio oggetto senza “conoscerlo”, mentre
la filosofia può arrivare a conoscerlo senza “possederlo”. In questo circolo virtuoso si
può pensare a sfere della creazione e del sapere che si inseminano a vicenda, suscitando
riflessioni sulla vita, sulla morte, sul nostro stare al mondo e continuare a esistere
come individui, insomma. Sembrerebbe poco, scontato o addirittura retorico, ma di
antidoti contro un’ebetudine indotta e generalizzata c’è più che mai bisogno.
Altrettanta ripercussione ha guadagnato negli ultimi anni l’idea che il “pensiero italiano”
abbia sempre costituito, sin dalle sue origini (Dante, Machiavelli, Vico), un approccio
originale, coerente e omogeneo al modo di concepire in stretto dialogo e con
mutua proficuità sfere come storia, politica e cultura. Questo senza schematismi disciplinari
e rompendo una prospettiva cronologica e storicistica. Certamente questo non
sarà il luogo per risolvere tale questione, ma per darne almeno conto sì.
In tal senso questo numero raccoglie brillanti contributi di studiosi e professori di università
brasiliane, di teoria e letterature comparate, scaturiti da un incontro realizzatosi
nello scorso mese di giugno presso l’Universidade Federal de Santa Catarina
(Florianópolis, Brasile), dal titolo appunto “Literatura e arte no pensamento italiano
contemporâneo”.
Al centro degli interventi vi sono soprattutto Roberto Esposito e il suo pensare la filosofia
nell’esperienza del cronachismo giornalistico, ancora Esposito con una riflessione
su bio e tanatopolitica, Enzo Traverso e il ripensare una sinistra oggi e Emanuele
Coccia con il suo elogio alla vita delle piante e, al contempo, con la proposta di una
nuova forma di relazione tra mondo umano e vegetale. Nella letteratura tante di queste
riflessioni prendono icasticamente forma, com’è il caso di un racconto di Santiago
Dabove, inserito nella famosa Antologia del racconto fantastico di Borges, Ocampo e
Bioy Casares, oppure dell’opera trasversale di un autore come Giovanni Raboni, in cui
si fa spazio il pensiero dell’inattualità, o meglio, dell’anacronismo. Ancora più urgente
e doveroso è infine uno sguardo sull’immigrazione in Italia, che tante delle questioni
in gioco riassume, attraverso l’opera interculturale dello scrittore italo-algerino Amara
Lakhous.
Buona lettura!
Gli editori
INDICE
Raccontando casi: Roberto Esposito e lo stile della filosofia come esperienza
Pedro de Souza
Il vivo e il morto nel pensiero italiano (da Vico a Enzo Traverso)
Kelvin Falcão Klein
Dalla vita delle piante all’ontologia della polvere
André Zacchi
Voci in dialogo: intersezioni a partire da Alcesti di Giovanni Raboni
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Voci migranti: la letteratura dello shock migratorio
Giorgio Buonsante
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La bottega del Verrocchio
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Mosaico Italiano, ISSN 21759537, Jun 2019
Elena Ferrante:
margini, autorialità
e altri abissi della finzione
Elena Ferrante è un’autrice di... more Elena Ferrante:
margini, autorialità
e altri abissi della finzione
Elena Ferrante è un’autrice di grande successo internazionale. Tra le
ragioni della sua notorietà vi è una circostanza piuttosto inconsueta nella scena
letteraria italiana (e non solo italiana), vale a dire la scelta sistematica e
persistente dell’anonimato circa il referente autoriale extratestuale. Il che ha
suscitato interesse e forte curiosità quanto alla sua identità. È nel 1992 che la
Ferrante esordisce con l’opera L’amore molesto. Da allora ha pubblicato altri
due romanzi, I giorni dell’abbandono e La figlia oscura, un libro per bambini,
La spiaggia di notte, un libro di saggi, articoli e interviste, La frantumaglia e
la recentissima raccolta di articoli L’invenzione occasionale, oltre alla quadrilogia
L’amica geniale, proposta letteraria che l’ha resa popolare in tutto il mondo
e, dunque, anche in Brasile.
Questo numero di “Mosaico italiano” si prefigge l’obiettivo di rispondere
ad alcune questioni relative alla Ferrante. Che cosa Elena Ferrante narra
a proposito dei nostri conflitti e dilemmi? Che trucchi delineano il cammino dei
suoi personaggi? A partire dai dialoghi con l’antichità classica e con il cinema
del secolo XXI, che politiche si producono nella sua scrittura? Il desiderio di
pensare queste e altre questioni relative alla singolarità dell’opera ferrantiana
ha riunito alcuni dei suoi studiosi nel colloquio internazionale Elena Ferrante:
margens, autorias e outros abismos da ficção, nei giorni 19 e 20 novembre 2018
all’Universidade Federal do Ceará (programma di Pós-Graduação PPGLetras)
durante il quale sono stati concepiti i testi inclusi in questo numero speciale di
“Mosaico italiano”.
Hanno collaborato Matteo Palumbo, professore dell’Università di
Napoli “Federico II”, Márcia Rios da Silva, coordinatrice e professoressa del
PPGEL/UNEB, Emilia Rafaelly Soares Silva, dottoranda del PPGLetras/UFC e docente
dell’IFPI, Francisco Romário Nunes, professore della UESPI e dottorando
del Programa de Pós-Graduação em Literatura e Cultura da Universidade
Federal da Bahia (UFBA), Giselle Andrade Pereira, mestranda del PPGLetras/
UFC, Juliana Braga Guedes, dottoranda del PPGLetras/UFC e borsista CAPES,
Maurício Santana Dias, docente all’Universidade de São Paulo (USP), nonché
uno dei traduttori brasiliani di Elena Ferrante.
Il dossier Ferrante, organizzato da un docente permanente e da due
dottorande del PPGLetras/UFC, si profila come uno spazio di discussione sulla
produzione letteraria di Elena Ferrante. Femminismo, violenza e autorialità saranno,
pertanto, termini chiave per leggere, attraverso l’immaginario ferrantiano,
l’abisso e i labirinti del nostro presente e della nostra anima.
Yuri Brunello, Emilia Rafaelly Soares Silva, Amanda Jéssica Ferreira Moura
Buona lettura!
INDICE
Elena Ferrante nella letteratura napoletana contemporanea
Matteo Palumbo
L’enigma Elena Ferrante, una scrittrice geniale
Márcia Rios da Silva
Le storie delle madri che fuggono e che restano
Emilia Rafaelly Soares Silva
Lo spazio napoletano nel romanzo: L’amore molesto di Elena Ferrante
Francisco Romário Nunes e Giselle Andrade Pereira
La smarginatura ne L’amica geniale
Juliana Braga Guedes
Cinque domande a Maurício Santana Dias a proposito di Elena Ferrante
Amanda Jéssica Ferreira Moura
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La bottega del Verrocchio
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Giugno 2019
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L’educatore (e lo scrittore)
uno spirito in movimento,
«disposto a farsi colpire»
Entriamo nella ... more L’educatore (e lo scrittore)
uno spirito in movimento,
«disposto a farsi colpire»
Entriamo nella stagione dei Premi letterari. L’articolo di Claudio Cherin, docente e saggista
esperto di narrativa contemporanea, offre un panorama dei dodici libri candidati
al premio più blasonato lo Strega. Ognuno compie le sue scelte personali. Un libro
come quello di Eraldo Affinati, Via dalla pazza classe. Educare per vivere, Mondadori,
2019, non rientra nei canoni del Premio e della narrativa in generale, contaminando,
come abitudine dello scrittore romano, microstorie, letture e commenti di libri altrui
al racconto di esperienze personali di ambito scolastico. Si legga questa pagina, del
capitoletto La scienza dei limiti, nella prima delle sei sezioni del volume, La scuola di
Penny. Come Affinati ha imparato nel suo lungo viaggio di insegnante e scrittore così i
volontari della Penny, scuola di italiano per stranieri su base completamente volontaria,
vedono in azione il senso del limite, imparano dai deboli:
Nella sua inquietudine vibrante e insoddisfatta si nasconde la fragilità spirituale del mondo
occidentale contemporaneo; ecco perché gli immigrati, nel momento in cui ci svelano
la nostra solitudine, potrebbero lenirla. Abdullah porta ancora sul ginocchio il segno
della pallottola che ha reciso i suoi tendini. L’anca è lesionata. Fino a un anno fa, abitava
insieme alla moglie e ai figli a Mogadiscio. È stato costretto ad abbandonare l’intera famiglia,
le cui immagini ora custodisce nel cellulare. Una bambina sta in piedi come una sentinella
dentro un cortiletto spoglio. Una ragazza mostra un volto di bambola. Mentre fa
gli esercizi sui verbi, Abdullah piega la testa sul banco, spossato. Al centro di accoglienza
gli hanno dato una confezione di Aulin: oggi ha già preso quattro compresse, ma il dolore
non passa. Flavia vorrebbe aiutare questo giovane somalo, sebbene non sappia in quale
modo. Mi viene in mente che potrei usare il microfono per chiedere se c’è un medico in
sala, come usa in treno o in aereo quando un passeggero si sente male. Poi desisto, forse
perché decifro negli occhi ansiosi della nostra volontaria la compassione che nel Vangelo
di Luca spinge il buon Samaritano a soccorrere il viaggiatore assalito dai briganti, ma
anche la scienza dei limiti che ogni educatore è chiamato ad apprendere nella frontalità
temeraria della sua posizione.
Proviamo a pensare se questo atteggiamento a tu per tu con la persona adesso davanti
a noi, alla Penny Wirton, lo portassimo anche altrove, tenendo presente il luogo verbale
dell’incontro umano che stiamo realizzando: in quel caso l’azione educativa sarebbe
l’avanguardia di una rivoluzione prepolitica, non distante dall’ideale di “vita comune”
predicato da Dietrich Bonhoeffer quando, negli anni del Terzo Reich, sosteneva: «Solo
chi alza la voce in difesa degli ebrei può permettersi di cantare il gregoriano». Allo stesso
modo noi oggi, nella nuova inciviltà dei fili spinati, potremmo affermare: «Solo chi si mette
dalla parte dei profughi può dirsi democratico».
Buona lettura
INDICE
La dozzina del Premio Strega 2019
Claudio Cherin
Le terre del Sacramento: un coro finale per un romanzo corale
Marco Bucci
Il romanzo e il fumetto. Rapporto e possibilità di fusione
Luca Latini
BRIGNETTI, IL MARE, L’ISOLA E L’IMPOSSIBILE INDIVIDUAZIONE
Noemi Paolini Giachery
Edoardo Sant’Elia Ri(e)mozioni novecentesche Dieci saggi narrativi su dieci idee
Paola Villani
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Con gratitudine verso il nostro collaboratore Marco
Camerini, docente e saggista di illuminata pa... more Con gratitudine verso il nostro collaboratore Marco
Camerini, docente e saggista di illuminata passione
e intelligenza, pubblichiamo come editoriale
una sua lettera per studenti ed ex studenti sul
messaggio ancora (più) attuale dei pirandelliani
Giganti delle montagna, in teatro in Italia con la
visionaria interpretazione di Gabriele Lavia. Ci
sembra urgente e necessaria (F.P.)
Agli ex-alunni del teatro…un grazie e una riflessione
dopo la visione de “I giganti della montagna”
Alla fine il Maestro Gabriele Lavia, nella sontuosa messa in scena cui avete
assistito al teatro Quirino di Roma, ha scelto – con rigore filologico – di rappresentare
il finale incompiuto in cui risuona, angosciosa, l’ultima battuta scritta
dal drammaturgo prima della morte: “Ho paura”.
Ed è lecito, Ragazzi, forse inevitabile “avere paura” oggi. Magari saranno anche
i Fascisti, ma credo che i Giganti siano quanti, nella nostra quotidianità, ci
vivono accanto (spesso perfettamente mimetizzati), incapaci di coltivare non
dico la Parole della Poesia e le suggestioni della Fantasia, ma le norme più
essenziali della convivenza civile, del reciproco rispetto, dell’umanità nella sua
accezione più nobile ed alta. Sono quanti discriminano il prossimo, abbandonano
gli anziani in squallide, umilianti residenze e un bambino di pochi mesi sul
sedile di un’auto mentre fuori fanno 40°, sfigurano le donne con l’acido, uccidono
per essere stati lasciati e appiccano il fuoco per non essere dimenticati.
Voi, senza ritirarvi nella Villa della Scalogna (troppo facile, forse, comunque
inaccettabile alla vostra età), dovete opporre alle “rovine e catastrofi” (Memorie
di Adriano) etiche e morali di uno sconcertante presente, la fede convinta
nei Valori della solidarietà e del reciproco rispetto, nella presenza solidale
e preziosa di “Qualcuno che certo guida il nostro andare quotidiano” (Ritmo,
E. Montale, insospettabile Zaccheo). Cambiando solo un termine nei versi di
Itaca, una lirica che amate (peraltro affine all’originale per il comune campo
semantico del gigantismo): “I Lestrigoni e i Giganti/ o la furia di Nettuno non
temere/non sarà questo il genere di incontri/se il pensiero resta alto e un sentimento/
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo”.
Per non avere paura. Mai.
Il vostro Prof.
Marco Camerini
Buona lettura
INDICE
Quattro lettere inedite di Corrado Alvaro ad Alba De Céspedes
Daniele Orlandi
L’improbabile caso del detective Contini a cavallo tra storia personale e un nuovo caso
investigativo. Intervista allo scrittore ticinese Andrea Fazioli
Eleonora Rothenberger Barbaro
Ignazio Silone e la lotta per “l’oro blu” in Fontamara
Marcella Di Franco
Alberto Moravia e la tecnica della riscrittura
La donna leopardo: un confronto fra la quinta e la sesta stesura
Marco Bucci
Turismo di ieri e turismo di oggi
Monica Masutti
I quarant’anni del Se una notte d’inverno un viaggiatore metaromanzo ed iper-romanzo in
Italo Calvino
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Letteratura e politica
Nella lunga parabola del Novecento, i rapporti tra la letteratura e il dom... more Letteratura e politica
Nella lunga parabola del Novecento, i rapporti tra la letteratura e il dominio
della politica mutano radicalmente, trasformando l’immagine dell’intellettuale tradizionale
in una figura nuova che non può fare a meno di misurarsi con la società
che lo circonda.
Dall’avvento della società di massa, le pressioni ideologiche vengono subite
sempre più intensamente, la prosa diviene spesso “militante”, e la stretta convergenza
tra il carattere dei personaggi e la visione di chi scrive appare, in molti
casi, come il naturale riflesso del legame indissolubile che si andava instaurando tra
esperienza biografica e attività letteraria.
Osservare le molteplici relazioni tra la letteratura e il contesto sociale significa in
primo luogo poter rintracciare nella sfera della politica un bacino tematico inesauribile,
una costellazione di temi, motivi, miti e simboli che nel loro intrecciarsi con il
genio artistico individuale hanno potuto alimentare continuamente il campo della
creazione letteraria. Dal tema della memoria, a quello della guerra, della deportazione,
della rivolta, della sconfitta, ciò che più affascina delle implicazioni politiche
in letteratura, fuori dalle pastoie della distorsione propagandistica, rimane l’esplorazione
dell’animo umano di fronte al disordine del mondo.
Nel presente numero di Mosaico, gli interventi proposti si concentrano sull’analisi
di queste tematiche, osservandone le differenti articolazioni a seconda delle poetiche
e delle prospettive culturali degli autori presi in esame. L’articolo di Sandro
De Nobile si focalizza su L’orologio di Carlo Levi, lucida e commossa testimonianza
di una precisa fase della politica italiana, quella della caduta del governo Parri, che
per lo scrittore torinese coincide con la disillusione e il tradimento delle promesse
sorte dalla Resistenza. Sulla narrativa elegiaca e memoriale di Giorgio Bassani si
dedica invece Sonia Trovato, con un intervento incentrato sulla silloge Il romanzo di
Ferrara, desolante spaccato storico-biografico di una generazione e di un mondo,
provinciale e borghese, destinato a scontrarsi con la cruda realtà del fascismo e la
tragedia delle persecuzioni razziali. E sulla scia di un lirismo più filosofico, cupo e
angosciante nella sua gelida razionalità, può essere inserita la figura “postuma”
di Guido Morselli, il quale nel romanzo Il comunista si serve dello scenario politico
per indagare la crisi di una coscienza umana sul piano esistenziale. Nel solco di una
letteratura ribelle, contestataria, di rottura, tipica degli anni ’60 e ’70, si inserisce il
saggio di Beniamino Della Gala che analizza il topos della rivolta nelle opere di Bianciardi,
Cesarano e De Andrè, ragionando sulla complessa dialettica tra individuo e
collettività.
Assumendo una prospettiva d’indagine più ampia, non legata alle opere di singoli
autori, i due articoli conclusivi si soffermano sui rapporti che intercorrono tra
politica e riviste letterarie. Se con il contributo di Daniel Raffini ci avviciniamo alla
vexata quaestio delle contraddittorie relazioni tra il regime fascista e i fogli culturali
di quegli anni, con l’editoriale di apertura della rivista «Zona letteraria» firmato da
Riccardo Burgazzi, qui gentilmente riproposto, ci si interroga sul ruolo che ancora
oggi può essere giocato dalla letteratura n el panorama contemporaneo.
Ringraziando gli editori per avermi dato l’opportunità di curare questo numero
di «Mosaico», auguro a tutti una buona lettura.
Stefano Tieri
INDICE
L’Orologio di Carlo Levi: qualunquismo? Populismo? Meridionalismo?
Sandro De Nobile
Barriere, segregazioni e zone grigie nel Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani
Sonia Trovato
Il comunista di Guido Morselli
Stefano Tieri
«Vengo anch’io. No, tu no». La tensione tra singolo e collettività in rivolta in alcune
rappresentazioni del Sessantotto italiano: Bianciardi, Cesarano, De Andrè
Beniamino Della Gala
Riviste e politica negli anni Venti
Daniel Raffini
Ciò che possiamo fare
Riccardo Burgazzi
Recensione
Verga innovatore
Maurizio Rebaudengo
Rubrica
Responsabilità
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All’insegna dell’amicizia
All’insegna dell’amicizia, il presente numero di «Mosaico italiano» rac... more All’insegna dell’amicizia
All’insegna dell’amicizia, il presente numero di «Mosaico italiano» raccoglie
contributi e testimonianze scritti e offerti ad Emerico Giachery da colleghi, studiosi,
amici e allievi. L’occasione è data dalla ricorrenza del suo novantesimo
compleanno che cade l’8 febbraio, giorno in cui, destino vuole, era nato anche
l’amatissimo poeta Giuseppe Ungaretti.
Nella sua lunga carriera di docente universitario, di saggista e scrittore,
Giachery ha avuto non solo l’opportunità di insegnare in vari atenei italiani
(Cagliari, Macerata, Genova, L’Aquila, Roma “Tor Vergata”) e all’estero (Berna,
Nancy, Ginevra), ma anche di lavorare su numerosi autori della tradizione
letteraria italiana. Dante, Belli, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale,
Pierro e i dialettali costituiscono, infatti, i punti di riferimento centrali della
sua attività assieme a problemi di metodo critico. E sono proprio gli autori cui
ha dedicato una lunga fedeltà critica, tornando spesso a faticare, o a “godere”
come direbbe Leo Spitzer, sulle loro carte.
Il lungo cammino ha evidenziato un’attività ermeneutica che si fonda, per
dirla in breve, sul fecondo incontro con il testo letterario, visto come uno spazio
multiforme di segni e di sensi, con il quale lo studioso entra in “sintonia”
servendosi, di volta in volta, degli strumenti e dei metodi che sono più consoni
alla sua interpretazione, siano essi filologici, stilistici, tematici o simbolici. In
aggiunta si può ricordare la centralità vitale accordata da Giachery a pratiche
di contatto volte a produrre una conoscenza di più ampio respiro di testi ed
autori: il “sopralluogo letterario”, quasi una verifica sul campo di atmosfere, di
contenuti testuali o di dati biografici; la lettura “ad alta voce”, così frequentemente
praticata anche nelle aule universitarie, in direzione dell’esistenza stessa
del testo, specie poetico, e di una sua possibile maggiore comprensione.
Questo editoriale, però, rischia di diventare un piccolo “biglietto da visita”,
di cui Giachery non ha bisogno. Per giunta, non è per riconoscibilità sua, ma
per riconoscenza nostra che ci siamo messi all’opera. Finisco, allora, augurando
a tutti buona lettura, ringraziando quanti hanno generosamente partecipato
e salutando il Maestro con questa frase di Philip Roth: «Per me non c’è
nient’altro nella vita che valga un’ora di lezione».
Roberto Mosena
I direttori di Mosaico si associano alla dedica per Emerico (e Noemi) Giachery,
con gratitudine, anche per i suoi contributi per la rivista e l’attenzione
verso gli allievi.
Buona lettura
INDICE
ELIO PECORA : per EMERICO nel suo novantesimo compleanno
Per un’ipotesi di lettura. La Commedia dantesca come Bibbia rinnovata
Raffaele Giglio
«La forza di Ungaretti è la /r/». Dizione poetica e microradiografia della voce, con Mario Luzi,
Francesco Nobili Benedetti, Pier Francesco Listri e Emerico Giachery
Roberto Mosena
Lo scrittore–interprete Emerico Giachery
Carmine Chiodo
Un’immagine di Ungaretti: la foglia
Giulio Di Fonzo
Una reciproca lunga fedeltà Per Emerico Giachery e Noemi Paolini Giachery
Marco Camerini
Per Emerico. A voce alta
Fabio Pierangeli
Umanesimo ed humanitas in Emerico Giachery ai Martedi letterari di Salerno.
Giovanna Scarsi
Rubrica
Amore
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Manuel Botelho de Oliveira,
un barocco baiano italofono
Manuel Botelho de Oliveira è un nome poco... more Manuel Botelho de Oliveira,
un barocco baiano italofono
Manuel Botelho de Oliveira è un nome poco noto in Italia. Eppure, è stato il primo
brasiliano a dare alle stampe testi letterari in lingua italiana. Siamo nel 1705 e a Lisbona
esce Música do Parnasso, raccolta di testi lirici in varie lingue, tra cui l’italiano, di gusto
marcatamente secentista. Botelho de Oliveira ha sessantanove anni, vive - da ricco
possidente e da membro della classe dirigente - in posizione di estremo conforto e
benessere. Si occupa di letteratura, scrivendo, leggendo.
L’Italia è una presenza importante nella Salvador del secondo Seicento. La
cattedrale di Salvador si arricchisce, nella sacrestia, di altari dai marmi provenienti
dall’Italia, mentre i dipinti che decorano i mobili della sacrestia giungono direttamente
da Roma, forse - è una delle attribuzioni più probabili - dalla scuola di Maratta. Di più:
Padre Antonio Vieira nel 1681 è di ritorno a Salvador, dopo avere speso oltre cinque
anni della propria vita - la prima metà degli anni settanta - a Roma.
Non deve sorprendere, insomma, che uno scrittore baiano, come Manuel
Botelho de Oliveira, guardi all’Italia. Gli anni della formazione universitaria quest’ultimo
li ha passati proprio nel Continente europeo, a Coimbra. Conosce il castigliano, ma
l’identità iberica, imperiale e coloniale, gli sta stretta. A Gongora e Lope de Vega l’autore
di Música do Parnasso sovrappone Marino, che da autore ovidiano, opera in termini
di deterritorializzazione: la funzione Marino è metamorfica, trasforma il discorso
letterario colonial-iberico in un discorso cosmopolita, aperto, senza confini nazionali.
È la svolta verso la vertente che sarà chiamata decenni più tardi, nel vocabolario
critico-letterario, il “barocco”. Roma e l’Italia rappresentano nell’immaginario baiano
del Sei e Settecento il centro di un potere politico e culturale sconfinato, universale,
un “non-luogo” non della post-modernità, ma della modernità.
Questo numero di Mosaico intende far conoscere il poeta baiano, nella sua
relazione viva con l’Italia, a un pubblico di non addetti ai lavori. Si comincia con
una scelta di due testi italiani di Botelho di Oliveira e di due traduzioni in italiano di
altrettanti componimenti in portoghese dell’autore di Música do Parnasso. A firmare le
traduzioni e le note a piè di pagina sono José Juliano Moreira Santos, Josenir Alcântara
de Oliveira, Roberto Arruda de Oliveira e Carlos Alberto de Souza, laureando della UFC
e borsista Pibic il primo, professori della UFC gli altri tre.
È poi la volta di Enrique Rodrigues-Moura, docente all’Università di
Bamberg, in Germania, intervistato sul Manuel Botelho de Oliveira poliglotta e su
altre questioni critiche e biografiche. Erimar Wanderson da Cunha Cruz, dottorando
del programma PPGLetras/UFC, farà luce sulla donna cantata in Musica do Parnasso,
Anarda, ricostruendone la genesi letteraria, mentre Marcio Henrique Vieira Amaro,
anch’egli dottorando del programma PPGLetras/UFC, analizzerà uno dei poemi del
ciclo di Anarda, collocando in rilievo la convergenza culturale tra il discorso letterario
di Botelho de Oliveira e l’antichità classica.
A proposito dei madrigali in italiano di Música do Parnasso, la traduzione
ad opera di Yuri Brunello, professore del programma PPGLetras/UFC, di un brano
di Francesco Guardiani su Marino, docente alla University of Toronto e studioso
dell’autore dell’Adone metterà in chiaro alcune caratteristiche della forma madrigale
barocca. Sui madrigali in italiano di Botelho de Oliveira si concentra, invece, lo scritto
di Daniella Paez Coelho , dottoranda del programma di Letras alla UFSM. Chiude il
numero una recensione di José Juliano Moreira dos Santos a A “maravilha” na poesia
di Manuel Botelho de Oliveira di Adma Muhana, professoressa dell’Universidade de São
Paulo e affermata studiosa di Botelho de Oliveira.
Il presente lavoro è uno dei risultati delle attività svolte nell’ambito del
progetto di ricerca Manuel Botelho de Oliveira e a nova Grecia, finanziato dal Cnpq
attraverso la Chamada Universal MCTI/CNPq nº1/2016.
Buona lettura!
Yuri Brunello ed Erimar Wanderson da Cunha Cruz
INDICE
Poesie di Manuel Botelho de Oliveira: traduzioni e commenti da Musica di Parnasso
José Juliano Moreira dos Santos, Josenir Alcântara de Oliveira, Roberto Arruda de Oliveira
e Carlos Alberto de Souza
Manuel Botelho de Oliveira, poeta brasiliano tra due continenti e quattro lingue:
intervista a Enrique Rodrigues-Moura
Erimar Wanderson da Cunha Cruz e Yuri Brunello
Il mistero acuto di Anarda
Erimar Wanderson da Cunha Cruz
La poesia como appropriazione degli stili in Manuel Botelho de Oliveira e il dialogo
con la storia dell’arte
Marcio Henrique Vieira Amaro
Da The sense of Marino
Francesco Guardiani
I madrigali italiani del Parnaso musicale di Botelho de Oliveira
Daniella Paez Coelho
Recensione
A “maravilha” na poesia di Manuel Botelho de Oliveira di Adma Muhana
José Juliano Moreira Santos
Rubrica
Delusione d’amore
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Le sirene
della poesia
«È la gioia eccessiva concessa dalla sirena ai beati abitatori dei suoi ag... more Le sirene
della poesia
«È la gioia eccessiva concessa dalla sirena ai beati abitatori dei suoi agosti
inesauribili.
Nella conclusione della sua Vita di Henry Brulard Stendhal dice: «A
cosa attenermi? Come descrivere la felicità pazzesca? Il lettore è mai stato innamorato
pazzo? Ha mai avuto la fortuna di passare una notte con l’amante
che egli ha amato soprattutto in vita sua?... Davvero non posso continuare;
l’argomento supera chi deve parlare... Forse converrebbe saltare a piè pari
questi sei mesi. Come rintracciare la felicità eccessiva che ogni cosa mi dava?
È impossibile per me».
È la paura della felicità, il no che viene detto alla sirena.
Non a caso, prima di scrivere Il gattopardo e Lighea, Giuseppe Tomasi di
Lampedusa si era abbeverato a quelle pagine.
Intravista da don Fabrizio negli spazi stellari alla fine del capitolo sul ballo
l’immagine materna della stella Venere, la Venere «sempre fedele» che un
giorno finalmente si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero
«nella propria regione di perenne certezza», l’immagine materna della «creatura
bramata da sempre» che si fa incontro al moribondo sotto le spoglie della
giovane donna intravista poco prima alla stazione di Catania, ritorna nella
immagine della Sirena che Platone fa rivivere nelle stelle e che, come la stella
Sirio da cui prende il nome, è la personificazione dei torridi giorni canicolari in
cui il sole percorre il segno zodiacale del leone, la divina abitatrice degli «Agosti
inesauribili», di quelle giornate sospese fuori del tempo in cui gli dei talvolta
soggiornano ancora in Sicilia e in cui appunto viene a compiersi il prodigio
narrato in Lighea.
Parlando della visione di don Fabrizio sul letto di morte la moglie dello scrittore
ha giustamente richiamato una poesia di Fet dove la morte, figlia della
muta Notte e sorella del Sogno, è rappresentata come una giovane donna,
una dea della mitologia greca: «Ma l’illuminata figlia del radioso Febo, piena/
del respiro della silente Notte, l’impassibile Morte,/ incoronando la fronte di
un’immobile stella,/ non conosce né il padre né l’inconsolabile madre».
Nella sospensione delle giornate di mezza estate che sembrano non aver
mai fine, la luce, che irradiandosi uguale dall’alto del tempio del fanciullo
divino si diffonde su Terracina, risveglia in me l’ebbrezza dei giorni di agosto
in cui nel racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si compie l’incontro
con la Sirena, la sensazione di una gioia eccessiva che è la «Grazia pagana»
concessa da quella «Madre saggissima» al divino fanciullo che è stato abitatore
dei suoi «Agosti inesauribili» vivendo in quella condizione di acronicità
che è simile alla inabitazione fetale» (Sabino Caronia, da In campo lungo,
romanzo in uscita nel 2019).
INDICE
Tomasi di Lampedusa: l’ultimo canto della Sirena
Claudia Carella
CREDERE ALLE SIRENE. IL CLASSICISMO IN CALVINO E TOMASI DI LAMPEDUSA
Sabino Caronia
Il dizionario della solitudine nelle lettere di Madame de Sévigné
Ciro Ranisi
Giuseppe Montesano
“Chiedere tutto alla poesia”. Riflessioni attorno al volume curato da Edoardo Sant’Elia
Fuoco. Terra. Aria. Acqua.
La Scapigliatura salernitana: dal cenacolo d’arte di via Tasso n. 59 ai Martedì Letterari
Oriana Bellissimo
Scaffale
A cura della redazione di Mosaico
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Bullismo
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Numeri di Mosaico Italiano by Mosaico Italiano
Il suo secondo libro di poesia, In controtempo (1994), esce per Einaudi (che d’ora in poi sarà la sua casa editrice), venendo accolto con molto favore sulle pagine di L’Unità da Giovanni Giudici, il quale lo giudica un libro che si distacca «nell’orrenda babele di chiasso e chiacchere». Ed è lo stesso Giudici, in questa recensione, ad indicare già due caratteristiche importanti del poeta: il rigore e la suprema pazienza.
La sostituzione arriva nel 2001, confermando l’importanza di alcuni motivi che
ritorneranno anche nei libri successivi, seppur con dei mutamenti, anche di tono: il
paesaggio umano, la pluralità di voci, il rapporto con le persone scomparse, i piccoli
animali, la figura dell’altro, i fili sfilacciati della memoria. Tutti aspetti, questi, che mettono al centro della sua poesia l’esperienza, la sua percezione e i suoi effetti.
I pluripremiati Pasqua di neve (2008) e Ablativo (2013) consolidano ulteriormente la figura di Testa nel panorama poetico italiano. A proposito della pubblicazione del secondo, Alberto Asor Rosa afferma sulle pagine di La Repubblica: «[s]i capisce così che, sperimentalmente parlando, la ricerca di Testa, mentre s’impernia decisamente sul disagio contemporaneo, ne addita al tempo stesso il superamento, inaugurando la proposta di una poesia che, più che dire, addita con esattezza millimetrica le condizioni attuali del nostro esserci – e il loro circostanziato espandersi nel mondo».
L’«andare a pezzi», riscontrato nei libri precedenti, si conferma dunque in Cairn, pubblicato nel 2018. Dopo trent’anni di scrittura poetica, forse qui c’è un passaggio decisivo, un ciclo che si chiude, per aprirsi, chissà, a futuri percorsi.
I saggi qui raccolti testimoniano con le loro acute letture critiche la forza di questa scrittura e di un accento ormai riconoscibile. Ringraziamo per la collaborazione Fabio Moliterni, Paolo Zublena, Fabio Pierangeli, Lucia Wataghin, Patricia Peterle, Sebastiana Savoca, Luiza Faccio e Prisca Agustoni. E in chiusura, un piccolo registro degli ultimi viaggi di Enrico Testa in Brasile.
di Paolo Cacciari
Questo articolo, pubblicato su Il fatto quotidiano del 15 maggio, è stato letto dal poeta Valerio Magrelli nella serie di video “Krisis - Tempos de Covid-19 a cura dei direttori di Mosaico Patricia Peterle e Andrea Santurbano. Ne parliamo in questo numero, dove gli articoli sul viaggio raccontano il desiderio di ripartenza a tutti i livelli, con la speranza che la seconda strada auspicata da Cacciari sia un effettivo cambio di rotta a livello mondiale.
Noto una rimozione, una vera repulsione – anche tra i più obiettivi commentatori – nel considerare la pandemia da Sars-Cov-2 per quello che è: l’ennesimo sintomo della rottura dei cicli vitali della biosfera. Esattamente come lo sono il surriscaldamento dell’atmosfera, l’acidificazione degli oceani, la perdita di fertilità dei suoli e le varie forme di inquinamento delle matrici ambientali. Eppure non occorre essere scienziati per capire che la Terra non regge la pressione di 7,4 miliardi di individui homo sapiens che allevano e mangiano 1,5 miliardi di bovini, 1,7 miliardi di ovini e caprini, 1 miliardo di suini, 1 miliardo di conigli, 52 miliardi (sì, avete letto giusto) di avicoli, oltre a 80 milioni di tonnellate di pesce d’allevamento. Aggiungiamoci un numero non precisato di cani, gatti e di animali selvatici come pagolini, serpenti, pipistrelli, scimmie e il quadro si completa. Questo “regime alimentare” ha una doppia conseguenza: estendere il terreno agricolo occupato da pascoli e da produzioni di mangimi, riducendo di conseguenze gli habitat naturali utili alla vita delle specie animali selvatiche; creare un serbatoio ideale di coltura di virus pronti al “salto di specie” (spillover). Ci si dimentica in fretta, ma le malattie di origine zoonotica negli ultimi decenni sono sempre più frequenti e virulente. Le ricordo alla rinfusa: Hiv, Ebola, Febbre gialla, Sars, encefalopatia spongiforme bovina (mucca pazza), afta epizootica, influenze suine e aviarie. I microorganismi supportano tutte le forme di vita, ma fattori antropogenici (come il cambiamento d’uso del suolo combinato al cambiamento climatico) alterano gli equilibri ospite-simbiote, modificando le risposte ai patogeni, indebolendo i sistemi immunitari, facilitano invasioni batteriche lungo le catene trofiche che legano ogni forma di vita. Durante questa pandemia è stata data la parola a esperti di tutte le discipline mediche e sociali, a pochi biologi e a nessun ecologo. Hanno scritto tre professori dell’Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), Josef Settele, Sandra Díaz, Eduardo Brondizio, Peter Daszak: “La di-lagante deforestazione, l’espansione incontrollata dell’agricoltura, l’agricoltura intensiva, l’estrazione mineraria e lo sviluppo delle infrastrutture, così come lo sfruttamento delle specie selvatiche hanno creato una ‘tempesta perfetta’ per la diffusione di malattie dalla fauna selvatica all’uomo”
[... ]Domandiamoci perché è così difficile riconoscere le cose semplici che si rivelano nella loro evidente casualità. Ci abbiamo messo quarant’anni per capire che bruciare d’un colpo le riserve di fossili accumulate qualche centinaia di milioni di anni fa nel sottosuo-lo avrebbe alterato la composizione chimica della atmosfera provocando l’effetto serra e l’inquinamento da polveri sottili inalabili. Quante pandemie dovremmo passare ancora per capire che è necessario restituire ai dinamismi vitali naturali almeno il 50 per cento della superficie terrestre e dei mari, come chiede l’Half-Earth Progject – che è poi uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu? L’alternativa che ci offre il business as usual è:sterminare tutti gli animali selvatici o vivere dentro uno scafandro sterile. C’è una via diuscita alla orrida distopia: trovare un’equilibrata convivenza tra tutte le specie viventi.
I contributi che vengono proposti, eterogenei per epoche e volutamente trasversali a diversi contesti di studio, si avviano idealmente con l’introduzione al lavoro di traduzione dei sonetti di Camōes curata da Federico Bertolazzi, che restituisce voce ed attualizza la relazione tra modello petrarchesco italiano e fisionomia petrarchista e arcadica della poesia lusofona a partire dal maturo Cinquecento.
Tuttavia, nel procedere dalla Modernità alla Contemporaneità, un ruolo sempre più centrale in questo dialogo è stato giocato tanto dagli aspetti alti ed ufficiali della cultura, della letteratura e dell’arte italiana, quanto pure da accezioni più popolari di queste medesime voci, come del resto già avevano efficacemente affermato Emilio Franzina e Antônio Hohferdt nel volume di Jean-Jacques Marchand sugli esiti letterari dell’emigrazione italiana. La dimensione popolare, filtro particolarmente efficace sin dall’avviarsi dell’Emigrazione Storica italiana, a cavallo tra Otto e Novecento ha acquisito la capacità di agevolare e innescare scambi anche tra le culture ufficiali dei due paesi, divenendo spesso il presupposto e la circostanza della diffusione capillare della letteratura italiana stanziale in terra americana. Sottolinea questa dimensione il contributo di Rino Caputo intorno al libro di Michele Gialdroni, Carcamani, in cui si ricostruiscono le rotte che la letteratura italiana ufficiale protonovecentesca percorre a partire dagli identici percorsi dell’Emigrazione Storica in terra sudamericana.
Se dunque il Novecento, nella sua complessità di laboratorio culturale, politico, economico e sociale, è stato l’alveo in cui si sono rovesciate le logiche antiche e le precedenti fisionomie degli equilibri tra Italia e Brasile, tra i principali mediatori di questi complessi momenti di contatto si deve certamente ascrivere Ruggero Jacobbi. Rodolfo Sacchettini ne descrive qui l’attività di mediazione tra le due tradizioni, sottolineando la centralità riservata alle produzioni dall’anima maggiormente popolare e divulgativa, come quella drammaturgica e dei radiodrammi, e rivelando come per questa via abbia contribuito alla diffusione della conoscenza di autori fino a quel momento poco noti in Italia come Augusto Boal.
Non meno significativa, ancora nel medesimo passaggio tra i due secoli, si rivela la la pratica traduttiva del patrimonio letterario brasiliano in Italiano. Ne fornisce qui testimonianza la complessa vicenda editoriale della traduzione di Vidas secas di Graciliano Ramos, che occupa buona parte del secolo scorso (1938-1998), e che sfocia in un coincidente esito d’elezione della ricezione ramosiana in quegli stessi linguaggi visivi e drammaturgici già prediletti nella mediazione di Jacobbi.
C’è dunque nella matrice divulgativa di questi linguaggi -non esclusivamente volano della cultura popolare cui certamente si riferiscono, ma anche facilitatori delle istanze più colte dei contesti di riferimento- una conferma di reciprocità negli immaginari e nelle condizioni di avvio delle tradizioni di cui sono specchio. È proprio questa dimensione, secondo le teorie più recenti6, che deve essere indagata per poter fornire un efficace strumento di conoscenza delle dinamiche che pervadono l’attuale condizione della produzione anche di origine brasiliana e di espressione italiana. Illustra questa felice intuizione il contributo di Teresa Fiore, che a partire dalla duplicazione degli immaginari, dalla loro reciprocità e dalla stereotipia in cui si formalizzano e che li genera, fornisce una efficace lente d’indagine della dimensione transnazionale e diasporica della produzione odierna, inserendo l’antica relazione tra i due paesi nel bel mezzo della più urgente riflessione letteraria internazionale.
Alessandra Mattei
nascondere! Accettare di essere disumani, a volte incredibilmente disumani, perfino in contesti quasi insignificanti, forse è il primo passo verso un ripensare il nostro avvenire.
Neghiamo ciò che siamo, neghiamo a vari livelli che viviamo quasi in un regime di schiavitù: dal bambino che non ha mai il tempo libero di stare con se stesso, perché oltre alla scuola, deve fare l’inglese, deve fare sport, musica, sottoposto, insomma, ad un regime settimanale il cui programma recita “il tempo dev’essere sempre occupato”, all’adulto,
per cui, in qualche caso, si potrebbe parlare perfino di un’ossessione malata verso il riempimento di questo demone del tempo. Sappiamo stare con noi stessi? Sappiamo convivere con i nostri cari, che ora ci stanno più vicini che mai, seppur nella distanza fisica? Sono domande da porsi dinnanzi a tutto ciò che sta succedendo, ma soprattutto davanti al silenzio inquietante che invade le nostre anime, abitanti in un mondo che è diventato assordante.
Sentire la voce del silenzio, del dolore, dei sentimenti. C’è senza dubbio un silenzio lacerante che occupa una miriade di foto e immagini che ci resteranno nella memoria – speriamo che anche queste non vengano divorate dalla frenesia verso un futuro ancora più instabile. Il silenzio è per esempio presentato in una serie di immagini che hanno girato il mondo, immagini quasi urlanti. Pensiamo alle vie di New York, al loro tran tran diurno e notturno, e a quel vuoto che ora ci invade, penetra “nell’ossa”, per ricordare i versi di Giorgio Caproni. Pensiamo ai camion dell’esercito, uno dietro l’altro, in fila lunghissima lungo via Borgo Palazzo, a Bergamo, epicentro della pandemia in Italia. Oppure alle immagini altrettanto impressionanti degli spazi fieristici di Madrid, ora
adibiti e trasformati in ospedale da campo, il più grande d’Europa, con 5.000 letti.
E poi i numeri: dei contagi, dei guariti, dei morti. Ma dietro ai numeri, che servono per le statistiche (ovviamente importanti), ci sono percorsi di vita, desideri, piani, affetti, memorie che all’improvviso sono stati anestetizzati, quando non definitivamente spenti.
Non è dunque possibile negare questa realtà che ora ci mostra il suo volto surreale, iperreale. È pertanto fondamentale più che mai combattere i nemici della nostra umanità, sentire tutti i silenzi piacevoli e non, lottare per il diritto alla vita, pensare all’altro, affrontare le nostre debolezze e paure.
Questo numero di Mosaico vuole offrire con i testi qui raccolti un momento di riflessione e registrare quest’esigenza facendo ricorso alla memoria letteraria e alla capacità della scrittura di investire i luoghi di un sentire più umano. Un grazie particolare a Luca Di Fusco per l’immagine di copertina che così spiega: «Da una settimana ho ricominciato a dipingere, l’ho fatto in questi giorni di quarantena pensando che mi sarebbe piaciuto essere un medico o un infermiere o uno scienziato, solamente per poter contribuire alla sconfitta di questo maledetto Coronavirus. Ma non ho nessuna di queste qualifiche, ho solo la dote della pittura e così ho deciso di liberare le mie mani sulla tela. L’unico modo che noi abbiamo per poter aiutare a combattere questo virus è quello di restare a casa dimostrando tutto l’amore che abbiamo per noi, per i nostri cari e, soprattutto, per la vita stessa. Solo con l’amore che abbiamo per la nostra Italia, il Covid-19 resterà una brutta pagina daleggere nei nostri libri di storia. Uniti tutti insieme ce la faremo».
sul tema, diamo continuità alla pubblicazione di saggi dedicati allo scrittore italo-
argentino Juan Rodolfo Wilcock, frutto del bellissimo convegno a lui dedicato
dall’Università d’Annunzio di Chieti, il 5-6 dicembre scorso, con l’organizzazione di
Andrea Gialloreto e Stefano Tieri, nell’ambito del progetto internazionale “Archivi
reali e immaginari tra Italia e America Latina”. Vogliamo recuperare in questa
circostanza parole già allora usate per presentare l’opera poliedrica di un autore
tanto straordinario quanto scomodo e irriverente.
Apolide letterario, iconoclasta dei generi, reinventore del quotidiano, umorista
allucinatorio, virtuoso del concetto, deformatore grottesco, riscrittore di se stesso,
satiro iperbolico, creatore di critici eteronomi, lettore eterodosso dei segni del
tempo, Wilcock si trasferisce definitivamente in Italia cominciando a scrivere in
italiano e entrando a far parte a tutti gli effetti della storia letteraria del belpaese,
alla fine degli anni Cinquanta, con una serie già considerevole di opere scritte o
pubblicate in spagnolo, che vanno dalla poesia, alla prosa, al teatro. Costruendo
un collage di citazioni tratte dai saggi di questi due numeri, si può affermare che
«accanto al “trasloco reale di casa, lingua, cultura” (che però significherà per lui,
in perfetta coerenza con l’immagine di sé che ci ha lasciato, muoversi all’insegna
della sinergia, della contaminazione, dell’osmosi, pur dentro una visione se non
propriamente polemica, naturalmente anticonformistica) agisce in Wilcock un’altra
e più intima specie di trasloco, che coinvolge la sua letteratura dall’interno:
quella della transazione, all’insegna di un’intertestualità endogena, che trascorre
lungo i diversi livelli dell’autocitazione e della riscrittura vera e propria». E nella
grande opera creativa che viene così a costituirsi l’autore giunge a toccare «tutte
le corde di uno strumento espressivo tanto personale quanto evocativo delle
“dissonanze” epocali di cui il Novecento si è fregiato: dall’invettiva al grottesco,
dal fantastico all’assurdo, dal macabro allo gnomico, dal lirismo agli algori della
matematica e della filosofia del linguaggio».
In questo secondo numero dedicato a Wilcock l’accento è posto, più specificamente,
sulla sua attività di critico e recensore, sul particolare rapporto con macchine
e dispositivi secondo quanto si evince da alcune sue pagine narrative e sul
suo personale laboratorio poetico a cavallo tra due (e più) culture.
In chiusura, una metodologia di studio del tutto originale sulla figura di uno scienziato,
naturalista e botanico, Domenico Agostino Vandelli, che sarebbe senz’altro
piaciuto allo stesso Wilcock, per un duplice motivo: in primo luogo perché
ne segue lo stesso cammino seppur inverso, nato cioè in Italia e poi trasferitosi
all’estero – in questo caso il Portogallo, acquisendo a tutti gli effetti cittadinanza
culturale in ambito luso-brasiliano; in secondo luogo perché potrebbe anche lui
annoverarsi – giocando per un attimo tra realtà e finzione – tra le famose gallerie
wilcockiane di scienziati e inventori.
I segni del tempo: frammenti di un discorso (in)civile
Seguito da: Tre articoli da «La Voce Repubblicana» di Juan Rodolfo Wilcock
Andrea Gialloreto
Le inquisizioni del Wilcock critico
Luciana Pasquini
Narrativa e dispositivo in Juan Rodolfo Wilcock
Kelvin Falcão Klein
“Chi non ha nome non può morire”: intorno alla poesia di Wilcock
Patricia Peterle
Domenico Vandelli in storie a fumetti. Un nuovo approccio metodologico nello studio della
scienza moderna
Ricardo Dalla Costa
magico oggi. Sguardo incrociato sul Novecento e la contemporaneità che intende
aprire una finestra sui grandi problemi di oggi utilizzando l’eredità di narrazioni e scritture
del secolo passato in maniera da leggere il presente con uno sguardo al futuro.
L’obiettivo è quello di tracciare un percorso che veda come attori principali alcuni
grandi protagonisti della nostra contemporaneità che con loro attività contribuiscono
a scrivere il presente partendo dalla categoria del realismo magico.
La metodologia predominante che verrà utilizzata per sviluppare il progetto
sarà quella della intervista letteraria. L’intervista letteraria che indaga più di altre
forme sull’opera di uno scrittore, secondo quanto afferma una piccola bibliografia
sull’argomento, si sarebbe andata costituendo nel tempo come un genere letterario:
è una idea forse dettata dall’intento di conferire dignità e concretezza a una tecnica
mista, che rinchiude in sé l’informazione e la critica, l’oralità e la sua trascrizione. Se
infatti si assume come necessaria a descrivere il genere la compresenza vis à vis di
un giornalista, o di un critico, e dello scrittore di volta in volta interpellato, entrambi
impegnati in una conversazione finalizzata a indagare un testo e ambientata in uno
spazio comune dovremmo allora escludere che appartenga al genere dell’intervista
letteraria una sequenza di domande e risposte scambiate per telefono, o inviate
tramite Internet, con relativo sacrificio della possibilità di indicare sulla pagina
il passo cui ci si riferisce, rinunciando a un contraddittorio diretto, a ogni forma di
complemento gestuale al discorso di entrambi i locutori, e persino alla certezza di
essere in relazione proprio con la persona desiderata piuttosto che con uno dei suoi
portavoce accreditati. Sempre più spesso, d’altronde, l’abitudine a schiacciare su un
presente immediatamente a portata di stampa ogni riepilogazione del passato e ogni
proiezione nel futuro scoraggia il rituale dell’incontro per sostituirlo con comunicazioni
affidate a supporti telematici.
Non è un caso che l’intervista letteraria nasca come genere in Francia, alla fine del XIX
secolo (quando il romanzo contava già su trionfi consolidati) avendo come precedente
giornalistico i dibattiti politici che comparivano sui giornali americani da cinquant’anni,
e come mediazione ideale i Colloqui di Johann Eckermann con Goethe, che portavano
notizie della sua vecchaia e nutrimenti alla leggenda che da allora ne circondò il nome.
Partendo da queste considerazioni il progetto vuole aprire uno squarcio sul multiforme
mondo della scrittura contemporanea italiana a partire da una chiave di lettura
costituita come abbiamo detto in precedenza dalla categoria del realismo magico per
toccare i grandi temi della esistenza umana.
Saranno, pertanto, realizzate una serie di videointerviste dedicate a uomini di cultura
viventi. Le videointerviste saranno pubblicate su un portale dedicato all’iniziativa
denominato MARWIT (Magic Realism in the wind of time) che sarà in linea dal mese di
aprile 2020.
In questo contesto verranno presentati prossimamente altri contributi e profili di
grandi personaggi della nostra cultura, da scrittori a poeti, da registi a storici che con
la loro attività contribuiscono a scrivere pagine memorabili del nostro mondo.
In questo numero il focus è stato posto su Gabriele Lavia, Attore e Regista, che con la
sua attività scrive e disegna un mondo fantastico che penetra in profondità i segreti
dell’uomo toccando corde e sensibilità che solo un grande intellettuale del nostro
tempo può riuscire ad afferrare.
A colloquio con Gabriele Lavia tra realismo e sogno
Intervista realizzata presso il Liceo Scientifico Statale “Vito Volterra” di Ciampino con la produzione
Arpafilm di Paola Populin
Giovanni La Rosa
“Un classico è un sole che non tramonta mai”. Quando i classici parlano di noi
Evelina Di Dio
Un mio ritratto di Gabriele Lavia
Giovanni Antonucci
La trilogia pirandelliana di Gabriele Lavia e la morte del teatro
Lucilla Bonavita
Breve profilo di Gabriele Lavia
Giovanni La Rosa
Silvio D’Arzo: un estraneo in casa d’altri
Luca Latini
allucinatorio, virtuoso del concetto, deformatore grottesco, riscrittore di se stesso,
satiro iperbolico, creatore di critici eteronomi, lettore eterodosso dei segni del
tempo: sono solo alcune delle definizioni, proposte nei saggi a seguire, e in altri
che saranno ospitati in un prossimo numero, che disegnano la figura eccentrica
e poliedrica di Juan Rodolfo Wilcock, autore argentino naturalizzatosi italiano. E
nello scollinare la soglia di questo nuovo anno, Mosaico può celebrarne un centenario
anomalo, diciamo un 2019+1, alla maniera del 1912+1 sciasciano modulato
da D’Annunzio, o del 18 trasformato in 1+8 di un ex giocatore sudamericano (così
rimaniamo dentro i nostri confini di testata), che era un altro modo per vestire il
9 destinato ad un suo più illustre collega di team, Ronaldo (il Fenomeno). Ecco,
magari questa commistione, un po’ sacrilega e irriverente, potrebbe ben interpretare
lo spirito del nostro.
Wilcock si trasferisce definitivamente in Italia cominciando a scrivere in italiano e
entrando a far parte a tutti gli effetti della storia letteraria del belpaese, alla fine
degli anni Cinquanta, con una serie già considerevole di opere scritte o pubblicate
in spagnolo, che vanno dalla poesia, alla prosa, al teatro. Ma «accanto al “trasloco
reale di casa, lingua, cultura” (che però significherà per lui, in perfetta coerenza
con l’immagine di sé che ci ha lasciato, muoversi all’insegna della sinergia,
della contaminazione, dell’osmosi, pur dentro una visione se non propriamente
polemica, naturalmente anticonformistica) agisce in Wilcock un’altra e più intima
specie di trasloco, che coinvolge la sua letteratura dall’interno: quella della transazione,
all’insegna di un’intertestualità endogena, che trascorre lungo i diversi
livelli dell’autocitazione e della riscrittura vera e propria». E nella grande opera
creativa che viene così a costituirsi l’autore giunge a toccare «tutte le corde di
uno strumento espressivo tanto personale quanto evocativo delle “dissonanze”
epocali di cui il Novecento si è fregiato: dall’invettiva al grottesco, dal fantastico
all’assurdo, dal macabro allo gnomico, dal lirismo agli algori della matematica e
della filosofia del linguaggio».
Le citazioni utilizzate sono già debitrici dei saggi qui raccolti, nonché di un prossimo
dossier sull’autore a cura di Andrea Gialloreto, incentrati su alcuni snodi critici
e tematici che attraversano sincronicamente e sinergicamente la produzione
wilcockiana. Sono essi riassumibili in alcuni poli di tensioni: quale realtà? quale
lingua? quale autorialità? quali frontiere? Oppure, basterebbe rimescolarli tutti
nei versi autografi riportati nel titolo.
Abbiamo lasciato per ultimo i dovuti crediti: questo numero non esisterebbe senza
il bellissimo convegno su Wilcock organizzato all’Università d’Annunzio di Chieti,
il 5-6 dicembre scorso, da Andrea Gialloreto e Stefano Tieri, nell’ambito del
progetto internazionale “Archivi reali e immaginari tra Italia e America Latina”. I
testi qui riuniti rappresentano appunto il primo risultato delle intense giornate
di discussione tra alcuni dei maggiori specialisti dell’opera wilcockiana. Buona
lettura, allora, e buon 2020!
Wilcock e l’unicorno metabolico
Roberto Barbolini
L’«Affondamento» di Robinson
Srecko Jurisic
La reinvenzione del quotidiano, tra cronache, microstorie e vite immaginarie
Andrea Santurbano
L’abominevole realtà?
Giorgio Nisini
Gli avverbi di Wilcock
Raffaele Manica
L’altra lingua di J. Rodolfo Wilcock
Marco Carmello
Tradurre, tradursi
Roberto Deidier
L’autotraduzione nella produzione letteraria di Wilcock: descrizione di un problema
Jeremías Bourbotte
La Roma di Wilcock tra i «candelieri d’oro» e la «palude eterna»
Daniel Raffini
Letteratura e memoria creano un nesso davvero saldo della coscienza dell’uomo:
alla memoria si deve la scrittura di opere immortali della Storia, quali furono.
«Cessate d’uccidere i morti». Tempo della memoria e memoria dell’oblio tra Primo Levi
e Giuseppe Ungaretti
Marilena Ceccarelli
Descrivere e riscrivere l’inferno: Primo Levi e Peter Weiss di fronte ad Auschwitz
Carlota Cattermole Ordóñez
Il rovescio della memoria: I sommersi e i salvati di Primo Levi
Emiliano Ventura
Mai abbaiando tra i cani: Patronimico, Shoah e antisemitismo ne ‘I Cani del Sinai’ di
Franco Fortini
Riccardo Deiana
I colori della metà irrazionale: lo spettro cromatico in ‘Ad ora incerta di Primo Levi’
Giulio Carlo Pantalei
le Confessioni di Agostino e ancora il celebre (e quasi canonico) romanzo
di Proust. Il meccanismo memoriale che è alla base della costante attività del
protagonista della Recherche, riflette e attraversa tempo e generi: cos’è la Vita
nova senza la camera della memoria da cui nasce il ricordo operoso e attivo
di Beatrice? Cosa sono, per restare ancora nella tradizione letteraria italiana,
i Rerum vulgarium fragmenta se non il ricordo di un pentimento passivo e mai
davvero esaurito ma lontano sì dalla voce dell’io lirico che sconta i suoi peccati
ormai lontani negli anni? Talvolta nel corso dei secoli, la memoria e la scrittura
che dà sfogo al ricordo si intrecciano riconoscendo, de facto, al destino del
singolo un valore emblematico. Sarà difficile crederlo per un lettore che non
è avvezzo al mondo medievale, ma, dopotutto, la disperata consolazione di
Boezio, incarcerato per le sue idee e per il suo essere “romano” in un mondo
“barbaro”, è solo apparentemente il grido di disperazione del singolo; dietro
Boezio vi è la trasformazione (e anche la rottura) di un equilibrio sociale. Il mondo
è cambiato. L’impero è caduto. Il pianto dell’uno si riflette sul dramma dei
molti. L’io è protagonista e testimone della tragedia.
Secoli dopo, quanto vissuto da Primo Levi e da altre milioni di persone segna
tanto una pausa evolutiva quanto una lacerazione profonda nella Storia
dell’uomo. Ecco la Shoah. Ecco che Levi nel doppio ruolo di osservatore e protagonista
è costretto a chiedersi se l’uomo – ma non il carnefice, piuttosto il
complice passivo costretto alla fame nei campi di concentramento – sia davvero
un uomo. Non diversamente, uno scrittore europeo (oggi quasi per nulla
letto in Italia), quale fu Stefan Zweig, prima che l’orrore si consumasse si chiedeva
le ragioni che avevano portato la società tedesca sul baratro di una crisi
etica inspiegabile. La risposta di Zweig fu il silenzio: scelse, infatti, la strada
del suicidio. Levi, invece, decise che era necessario raccontare, trasmettere,
descrivere, narrare. Obiettivo dei saggi che ho avuto il piacere di raccogliere in
questo numero di “Mosaico” è di offrire una riflessione memoriale sull’evento
catastrofico-centrale della vita di Levi: la Shoah. E quale occasione migliore
di un centenario? Del primo centenario dalla nascita di Levi? Il numero – per
il quale sono grato all’amico Fabio Pierangeli, è dedicato agli stessi autori che
hanno raccolto il mio invito a collaborare – assume una dimensione duplice,
micro e macroscopica: i saggi di Marilena Ceccarelli e di Giulio Carlo Pantalei,
che aprono e chiudono il volume quasi sigillandolo, sono dedicati alla produzione
poetica di Levi (la meno celebre, viene esaminata con prospettive e
attenzioni differenti); Cattermole Ordóñez descrive l’“inferno” di Primo Levi
e di Peter Weiss secondo una chiave “dantesca”; Emiliano Ventura offre una
disamina de I sommersi e i salvati, scorgendo interessanti parallelismi con Jean
Améry; Riccardo Deiana, infine, dedica un interessante saggio al problema
dell’ebraismo in Franco Fortini. L’augurio per il lettore e per chi ha partecipato
al volume è che anche attraverso queste scritture si possa tanto continuare
a cercare la Verità, quanto con essa provare a valorizzare una Memoria che,
nei giorni in cui si licenzia questo numero di Mosaico, appare troppo spesso relegata al pericoloso oblio.
l’arte e le mediazioni col reale
Agli occhi del passante o turista frettoloso è appena un’anticamera o una sorta
di area di disimpegno della celebre e imponente Piazza Duomo a Milano; eppure,
nel prossimo mese di dicembre verranno celebrati i cinquant’anni da che
è diventata simbolo di qualcosa di diverso e di tremendo. Parliamo di Piazza
Fontana, dell’esplosione della bomba all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura,
che dilaniò a morte 17 persone, lasciandone molte altre ferite. Luogo,
dunque, che si è caricato di storia, marcando idealmente l’inizio degli anni
di piombo e della cosiddetta strategia della tensione, che si sarebbe protratta
fino al 1980, quando un’altra esplosione devastante lascerà 85 morti nell’atrio
sventrato della stazione di Bologna. Luogo marginale, quasi insignificante, ma
di cui basta il nome per riaprire una breccia memoriale, come suggerisce una
bella poesia di Giovanni Raboni.
E questo vuole essere solo un esempio di quello che nelle pagine di un libro si
trasforma, per dirla con Bachtin, in un cronotopo; cioè, in quel punto di congiuntura
spazio-temporale tra autore e realtà che impregnano l’opera dei motivi
che la caricano di significati circostanziali, e dove quindi l’artistico e il letterario
lasciano la loro impronta e si pongono come privilegiata chiave di lettura
e riflessione. Scrive Friedrich Dürrenmatt: “L’arte, la letteratura, sono, come
qualunque altra cosa, un confronto col mondo. Una volta afferrato questo, ne
potremo intravedere anche il senso”.
Spazi – urbani principalmente, ma non solo – e tempi – della cronaca e della
storia –, riletti dal filtro dell’arte e della letteratura, sono appunto le coordinate
che orientano i saggi qui presentati: da uno spaccato londinese di Michelangelo
Antonioni, percepito attraverso le mediazioni tra racconto, foto e cinema,
alla Ferrara di Bassani nella sua mediazione con la pittura di Morandi; dagli
itinerari che segnano l’esperienza traumatica di Primo Levi, dentro e fuori i
campi di concentramento, alla Napoli del dopoguerra colta dalla penna incisiva
di Clarice Lispector; dalla Milano, come detto, di Giovanni Raboni, ma anche
di Michele Mari, alla Venere di Rivoli (o degli Stracci) di Michelangelo Pistoletto
riproposta nella poesia di Enrico Testa. Contaminazioni tra linguaggi diversi
e, a volte, complementari che ci obbligano a riconsiderare costantemente il
nostro rapporto con una realtà sempre in via di definizione.
Visualizzazione percettiva: uno sguardo su Blow-Up di Michelangelo Antonioni
Thaís Aparecida Domenes Tolentino
Muri, giardini e confluenze tra la scrittura di Bassani e la pittura di Morandi
Izabel Dal Pont
Il camminare nell’opera di Primo Levi
Helena Bressan Carminati
“Qui, tutto ha un colore sbiadito…”: Napoli nella corrispondenza di Clarice Lispector
Luigia De Crescenzo
La storia “dove forse non c’è”
Elena Santi
Sto “con i mattoni cotti nella fornace comune”: Enrico Testa
Luiza Kaviski Faccio
Recensione
Alla riscoperta di Ercole Patti
di Franco Zangrilli
Un pacchetto di Gauloises.
Guido Morselli, «lui ci manca»
La biografia narrativa di Linda Terziroli, Un pacchetto di Galuloises, edita da
Castelvecchi, permette di tornare a parlare di Guido Morselli, scomparso
nel 1973. Il titolo allude all’ultima istantanea della narrativa dello scrittore
varesino, in Dissipatio H.G: l’attesa speranzosa, non priva di indizi concreti,
la sigaretta appunto, di incontrare di nuovo l’unico vero amico di sempre, il
dottorino Karpinski, e fumare con lui, scambiare delle parole, forse abbracci,
in quel clima apocalittico, in cui tutto il genere umano sembra scomparso,
evaporato. Ed uno solo, il protagonista, il malcapitato, o il fortunato, rimasto
l’unico a poter raccontare, da morto, da vivo?!, quella atmosfera straniante.
Karpinski, come Cristo nella trilogia di Fede e critica, gli manca.
La biografia della Terziroli, come l’articolo donato a Mosaico dalla storica
curatrice delle opere di Morselli, Valentina Fortichiari, testimonia che figure di
intellettuali nobili, non allineate, originali, ci mancano.
Non a caso, su tematiche contemporanee, agli articoli dedicati a Morselli,
ne seguono due su scrittori, per diversissime ragione, tra i pochi ad
accostarsi ad un pensiero libero come quello di Guido: Giuseppe Yusuf
Conte e Eraldo Affinati.
I brani seguenti dal Diario di Guido Morselli offrono diversi spunti di attualità,
anche per l’inizio del nuovo anno accademico e scolastico:
Mi piace l’intelligenza autonoma. Autonoma anche dall’attualità della
cultura. Mi piace l’intelligenza perfino svincolata dall’informazione.
Mi danno fastidio le intelligenze nelle quali il primo ruolo è assegnato
all’aggiornamento. La presenza troppo affiorante della cultura eccessivamente
aggiornata toglie al talento l’attributo universale, lo trasferisce
(e lo riduce) al particolare. Il nostro secolo, ricchissimo di informazioni
ovviamente nuove, ha un umanesimo più pregno di aggiornamenti
culturali che di intelligenza”.
L’erudizione è un possesso statico, acquisito una volta per tutte, che una
salda memoria basta a conservare. La cultura dell’individuo è sempre sul
farsi, o non è. L’uomo colto non è chi sa, ma chi apprende.
Cólto – e non puramente erudito, quantunque “sappia”molte cose – è
l’uomo che sente il dovere di alimentare il proprio spirito assiduamente,
quotidianamente: e che adempie a questo dovere verso di sé con diligenza,
con tenacia, quali che siano (e magari avverse, impropizie) le circostanze in
cui si trova a vivere.
Leggere Guido Morselli oggi
Valentina Fortichiari
L’America, Il comunista, mio fratello
Linda Terziroli
Un lunga fedeltà. Linda Terziroli e il suo Guido Morselli
Luigi Mascheroni
Il padre, le donne, i rifiuti. Istantanee di Guido Morselli
Davide Brullo
La frusta del sadico e l’invenzione della letteratura. I senza cuore di Giuseppe Conte
Fabio Pierangeli
Dono del presente, scommessa per il futuro: “l’altra scuola” di Eraldo Affinati
Marco Camerini
Scaffale, libri e teatro
a cura di Mosaico
tra scambi e
migrazioni culturali
L’Italia e il Brasile sono tra loro profondamente legati. I nessi migratori che
hanno portato tra XIX e XX secolo numerosissimi italiani nel Gigante sudamericano
sono solamente l’ultimo anello di una catena molto stretta, socialmente stratificata
e pluriforme di relazioni culturali e politiche che percorrono l’intera epoca moderna:
confluita in un reciproco contributo, seppure con modi e tempi diversi, alla definizione
della fisionomia identitaria di entrambi i paesi attraverso la frequentazione dei propri
immaginari. Questi vincoli di prossimità, che partendo dal dettato letterario si sono
rivestiti di una valenza fieramente civile, riemergono con sorprendente vivacità in
fenomeni migratori contemporanei dalle rotte inverse.
Nel contesto letterario italiano esse si giovano di un terreno particolarmente
favorevole, che ha fornito l’humus necessario alla frequentazione del Brasile da parte
di autori italiani all’inizio del Novecento e all’insediamento di autori brasiliani in Italia
a partire dagli anni Cinquanta. Ciò è potuto accadere grazie a un’opera massiccia
di traduzioni e alla mediazione di poeti, scrittori e intellettuali come Ungaretti, che
attraversò il lustro brasiliano in una duplice riflessione sulla propria poetica e sulle
tradizioni e specificità del paese ospite; o come Ruggero Jacobbi, che sin dagli anni
Quaranta lavorò per traslare gli aspetti a suo avviso più importanti e radicalmente
qualificanti della produzione letteraria brasiliana nel contesto italiano: contribuendo
a legare alla ricerca letteraria italiana impegnata nel recupero del valore democratico
della cultura dopo la dittatura fascista, lo sforzo di molti intellettuali esuli o fuoriusciti
che in quegli anni si allontanavano dal Sud America alla volta dell’Europa per condurre
le proprie battaglie e rivendicazioni democratiche.
Se in Italia il Brasile si è mantenuto luogo e archetipo di un immaginario non solo
letterario dal processo risorgimentale ad oggi, anche l’Italia ha finito per rappresentare
per il Brasile un topos, che dopo aver incarnato un modello culturale cui esemplarsi
nel periodo delle grandi Accademie, nel corso del Novecento e dei più recenti anni
Duemila è stato tanto luogo di accoglimento di molti intellettuali esuli o dissidenti,
quanto luogo letterario simbolo della civiltà occidentale per antonomasia: erede della
classicità, che oggi soffre esposta al pericolo del declino di quella modernità di cui è
emblema; o voce corale di una natura popolare di cui l’emigrazione storica è stata
altra e complementare testimonianza.
Tutto ciò ci consegna oggi una reciprocità operante nella più importante
comunità poetica translingue d’Italia, che innesta nella produzione italiana lo specifico
portato del proprio ingaggio fieramente civile, democratico e impegnato per la lotta
ecologista.
Alessandra Mattei
INDICE
Un poeta italiano ai tropici: la San Paolo di Giuseppe Ungaretti
Ettore Finazzi-Agrò
L’Italia, la guerra e la forza in un romanzo di Boris Schnaiderman
Giorgio de Marchis
Immigranti di ieri e di oggi tra Italia e Brasile: un mosaico nel mosaico
Emilio Franzina
Un romanzo interrotto di Ruggero Jacobbi
Franzisca Marcetti
Un contadino in croce: Jacobbi, Dias Gomes e l’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato
Rodolfo Sacchettini
Relazioni letterarie nella poesia translingue di autori di origine brasiliana ed
espressione italiana. Considerazioni preliminari.
Alessandra Mattei
Recensione
Lupa in fabula, di Manuela Lunati
A cura di Yuri Brunello e João Francisco de Lima Dantas
Rubrica
Amore e amante
Francesco Alberoni
PASSATEMPO
Settembre 2019
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Direttore responsabile
Pietro Petraglia
Editori
Andrea Santurbano
Fabio Pierangeli
Patricia Peterle
Revisore
Elena Santi
Grafico
Wilson Rodrigues
come variabile
della società
La direzione di Mosaico ringrazia il poeta e saggista Beppe Mariano, da anni collaboratore
della rivista, per gli articoli legati ad uno dei più interessanti movimenti poetici
oggi in Italia: il realismo terminale che ha in Giuseppe Langella e Guido Oldani i rappresentanti
di spicco. Ne presentiamo, grazie ancora a Mariano, alcune liriche e il manifesto
del loro movimento.
Lasciamo la parola a Beppe:
«Partendo dall’assunto che il linguaggio è una variabile della società e quindi si
evolve con essa, abbiamo constatato in questi anni quanto le nuove tecnologie abbiano
influenzato la scrittura. Periodi brevi, brevissimi, forme del parlato e del mugugno
perfino, anglismi esuberanti e non necessari, neologismi disinvolti, segni grafici
d’interpunzione... e così via.
Ed è all’interno delle figure retoriche che si può meglio notare tale cambiamento per
mezzo ad esempio dell’evoluzione della metafora.
Per molto tempo si è usato, scrivendo, forme metaforiche legate ai cicli rurali e artigianali,
quali ad esempio “tessere parole”. “l’aratro dell’avvenire”, “seminare idee”
ecc. Forme metaforiche ancora in voga oggi. È solo venuta meno la metafora carducciana
del poeta paragonabile al grande artiere, probabilmente perché ha assunto un
sapore retrò di retorica esuberanza. Continuiamo invece a tener salda la metafora che
Ezra Pound aveva tratto dalla classicità al fine di equiparare la poesia di Eliot al maglio
del fabbro. […] Giacché il linguaggio è una variabile della società, possiamo chiederci
quale linguaggio possa oggi corrispondere alla frantumazione della realtà e alla sua
progressiva sostituzione con la cosiddetta realtà virtuale (ad esempio nella realtà del
computer, saremo sempre più “connessi” e “globali”: tant’è che al posto del vecchio
“sbullonarsi” dovremmo scrivere “sconnettersi”). […] La lingua nelle sue varie forme
espressive potrà ancora nominare la Natura tramite i suoi componenti (mare, cielo,
montagna, laghi, fauna, flora) come se fosse ancora completamente naturale? O non
dovrà invece testimoniare a livello poetico le intrusioni artificiali?
Già del resto il condizionamento psico-fisico che subiamo ad esempio dall’automobile
dominante è tale che quando sento pronunciare la parola “albero” penso prima
all’albero-motore della macchina.
Ugualmente auspico ogni giorno che l’orizzonte naturale e metaforico sia schiarito da
un tergi-orizzonte e che io possa così avviarmi sereno verso una cielostrada».
Buona lettura
Gli editori
INDICE
LA SIMILITUDINE ROVESCIATA O DEL REALISMO TERMINALE
Beppe Mariano
Manifesto del realismo terminale
Saliscendere la montagna della parola. La raccolta di Sergio Gallo e altre segnalazione
di poesia
Beppe Mariano
“Variazioni” di vita nei versi di Amelia Rosselli. In merito al saggio di Sara Sermini
Barbara Stazi
DOVE SORGEVA ALBA LONGA?
Intervista di Aldo Onorati a Riccardo Bellucci
Scaffale
a cura di Mosaico
Rubrica
Ultimo saluto
Francesco Alberoni
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Grafico
Wilson Rodrigues
contemporaneo
Sempre più filosofi italiani, nel corso degli ultimi anni, sono saliti alla ribalta del dibattito
internazionale, politico e culturale. Giorgio Agamben, Roberto Esposito, Emanuele
Coccia, solo per citare alcuni nomi, sono ormai punti di riferimento nelle bibliografie
di molte istituzioni accademiche, dentro e, soprattutto, fuori dall’Italia. La letteratura
e l’arte in generale possiedono spesso il proprio oggetto senza “conoscerlo”, mentre
la filosofia può arrivare a conoscerlo senza “possederlo”. In questo circolo virtuoso si
può pensare a sfere della creazione e del sapere che si inseminano a vicenda, suscitando
riflessioni sulla vita, sulla morte, sul nostro stare al mondo e continuare a esistere
come individui, insomma. Sembrerebbe poco, scontato o addirittura retorico, ma di
antidoti contro un’ebetudine indotta e generalizzata c’è più che mai bisogno.
Altrettanta ripercussione ha guadagnato negli ultimi anni l’idea che il “pensiero italiano”
abbia sempre costituito, sin dalle sue origini (Dante, Machiavelli, Vico), un approccio
originale, coerente e omogeneo al modo di concepire in stretto dialogo e con
mutua proficuità sfere come storia, politica e cultura. Questo senza schematismi disciplinari
e rompendo una prospettiva cronologica e storicistica. Certamente questo non
sarà il luogo per risolvere tale questione, ma per darne almeno conto sì.
In tal senso questo numero raccoglie brillanti contributi di studiosi e professori di università
brasiliane, di teoria e letterature comparate, scaturiti da un incontro realizzatosi
nello scorso mese di giugno presso l’Universidade Federal de Santa Catarina
(Florianópolis, Brasile), dal titolo appunto “Literatura e arte no pensamento italiano
contemporâneo”.
Al centro degli interventi vi sono soprattutto Roberto Esposito e il suo pensare la filosofia
nell’esperienza del cronachismo giornalistico, ancora Esposito con una riflessione
su bio e tanatopolitica, Enzo Traverso e il ripensare una sinistra oggi e Emanuele
Coccia con il suo elogio alla vita delle piante e, al contempo, con la proposta di una
nuova forma di relazione tra mondo umano e vegetale. Nella letteratura tante di queste
riflessioni prendono icasticamente forma, com’è il caso di un racconto di Santiago
Dabove, inserito nella famosa Antologia del racconto fantastico di Borges, Ocampo e
Bioy Casares, oppure dell’opera trasversale di un autore come Giovanni Raboni, in cui
si fa spazio il pensiero dell’inattualità, o meglio, dell’anacronismo. Ancora più urgente
e doveroso è infine uno sguardo sull’immigrazione in Italia, che tante delle questioni
in gioco riassume, attraverso l’opera interculturale dello scrittore italo-algerino Amara
Lakhous.
Buona lettura!
Gli editori
INDICE
Raccontando casi: Roberto Esposito e lo stile della filosofia come esperienza
Pedro de Souza
Il vivo e il morto nel pensiero italiano (da Vico a Enzo Traverso)
Kelvin Falcão Klein
Dalla vita delle piante all’ontologia della polvere
André Zacchi
Voci in dialogo: intersezioni a partire da Alcesti di Giovanni Raboni
Elena Santi
Voci migranti: la letteratura dello shock migratorio
Giorgio Buonsante
Rubrica
La bottega del Verrocchio
Francesco Alberoni
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Revisore
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Grafico
Wilson Rodrigues
margini, autorialità
e altri abissi della finzione
Elena Ferrante è un’autrice di grande successo internazionale. Tra le
ragioni della sua notorietà vi è una circostanza piuttosto inconsueta nella scena
letteraria italiana (e non solo italiana), vale a dire la scelta sistematica e
persistente dell’anonimato circa il referente autoriale extratestuale. Il che ha
suscitato interesse e forte curiosità quanto alla sua identità. È nel 1992 che la
Ferrante esordisce con l’opera L’amore molesto. Da allora ha pubblicato altri
due romanzi, I giorni dell’abbandono e La figlia oscura, un libro per bambini,
La spiaggia di notte, un libro di saggi, articoli e interviste, La frantumaglia e
la recentissima raccolta di articoli L’invenzione occasionale, oltre alla quadrilogia
L’amica geniale, proposta letteraria che l’ha resa popolare in tutto il mondo
e, dunque, anche in Brasile.
Questo numero di “Mosaico italiano” si prefigge l’obiettivo di rispondere
ad alcune questioni relative alla Ferrante. Che cosa Elena Ferrante narra
a proposito dei nostri conflitti e dilemmi? Che trucchi delineano il cammino dei
suoi personaggi? A partire dai dialoghi con l’antichità classica e con il cinema
del secolo XXI, che politiche si producono nella sua scrittura? Il desiderio di
pensare queste e altre questioni relative alla singolarità dell’opera ferrantiana
ha riunito alcuni dei suoi studiosi nel colloquio internazionale Elena Ferrante:
margens, autorias e outros abismos da ficção, nei giorni 19 e 20 novembre 2018
all’Universidade Federal do Ceará (programma di Pós-Graduação PPGLetras)
durante il quale sono stati concepiti i testi inclusi in questo numero speciale di
“Mosaico italiano”.
Hanno collaborato Matteo Palumbo, professore dell’Università di
Napoli “Federico II”, Márcia Rios da Silva, coordinatrice e professoressa del
PPGEL/UNEB, Emilia Rafaelly Soares Silva, dottoranda del PPGLetras/UFC e docente
dell’IFPI, Francisco Romário Nunes, professore della UESPI e dottorando
del Programa de Pós-Graduação em Literatura e Cultura da Universidade
Federal da Bahia (UFBA), Giselle Andrade Pereira, mestranda del PPGLetras/
UFC, Juliana Braga Guedes, dottoranda del PPGLetras/UFC e borsista CAPES,
Maurício Santana Dias, docente all’Universidade de São Paulo (USP), nonché
uno dei traduttori brasiliani di Elena Ferrante.
Il dossier Ferrante, organizzato da un docente permanente e da due
dottorande del PPGLetras/UFC, si profila come uno spazio di discussione sulla
produzione letteraria di Elena Ferrante. Femminismo, violenza e autorialità saranno,
pertanto, termini chiave per leggere, attraverso l’immaginario ferrantiano,
l’abisso e i labirinti del nostro presente e della nostra anima.
Yuri Brunello, Emilia Rafaelly Soares Silva, Amanda Jéssica Ferreira Moura
Buona lettura!
INDICE
Elena Ferrante nella letteratura napoletana contemporanea
Matteo Palumbo
L’enigma Elena Ferrante, una scrittrice geniale
Márcia Rios da Silva
Le storie delle madri che fuggono e che restano
Emilia Rafaelly Soares Silva
Lo spazio napoletano nel romanzo: L’amore molesto di Elena Ferrante
Francisco Romário Nunes e Giselle Andrade Pereira
La smarginatura ne L’amica geniale
Juliana Braga Guedes
Cinque domande a Maurício Santana Dias a proposito di Elena Ferrante
Amanda Jéssica Ferreira Moura
Rubrica
La bottega del Verrocchio
Francesco Alberoni
Giugno 2019
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uno spirito in movimento,
«disposto a farsi colpire»
Entriamo nella stagione dei Premi letterari. L’articolo di Claudio Cherin, docente e saggista
esperto di narrativa contemporanea, offre un panorama dei dodici libri candidati
al premio più blasonato lo Strega. Ognuno compie le sue scelte personali. Un libro
come quello di Eraldo Affinati, Via dalla pazza classe. Educare per vivere, Mondadori,
2019, non rientra nei canoni del Premio e della narrativa in generale, contaminando,
come abitudine dello scrittore romano, microstorie, letture e commenti di libri altrui
al racconto di esperienze personali di ambito scolastico. Si legga questa pagina, del
capitoletto La scienza dei limiti, nella prima delle sei sezioni del volume, La scuola di
Penny. Come Affinati ha imparato nel suo lungo viaggio di insegnante e scrittore così i
volontari della Penny, scuola di italiano per stranieri su base completamente volontaria,
vedono in azione il senso del limite, imparano dai deboli:
Nella sua inquietudine vibrante e insoddisfatta si nasconde la fragilità spirituale del mondo
occidentale contemporaneo; ecco perché gli immigrati, nel momento in cui ci svelano
la nostra solitudine, potrebbero lenirla. Abdullah porta ancora sul ginocchio il segno
della pallottola che ha reciso i suoi tendini. L’anca è lesionata. Fino a un anno fa, abitava
insieme alla moglie e ai figli a Mogadiscio. È stato costretto ad abbandonare l’intera famiglia,
le cui immagini ora custodisce nel cellulare. Una bambina sta in piedi come una sentinella
dentro un cortiletto spoglio. Una ragazza mostra un volto di bambola. Mentre fa
gli esercizi sui verbi, Abdullah piega la testa sul banco, spossato. Al centro di accoglienza
gli hanno dato una confezione di Aulin: oggi ha già preso quattro compresse, ma il dolore
non passa. Flavia vorrebbe aiutare questo giovane somalo, sebbene non sappia in quale
modo. Mi viene in mente che potrei usare il microfono per chiedere se c’è un medico in
sala, come usa in treno o in aereo quando un passeggero si sente male. Poi desisto, forse
perché decifro negli occhi ansiosi della nostra volontaria la compassione che nel Vangelo
di Luca spinge il buon Samaritano a soccorrere il viaggiatore assalito dai briganti, ma
anche la scienza dei limiti che ogni educatore è chiamato ad apprendere nella frontalità
temeraria della sua posizione.
Proviamo a pensare se questo atteggiamento a tu per tu con la persona adesso davanti
a noi, alla Penny Wirton, lo portassimo anche altrove, tenendo presente il luogo verbale
dell’incontro umano che stiamo realizzando: in quel caso l’azione educativa sarebbe
l’avanguardia di una rivoluzione prepolitica, non distante dall’ideale di “vita comune”
predicato da Dietrich Bonhoeffer quando, negli anni del Terzo Reich, sosteneva: «Solo
chi alza la voce in difesa degli ebrei può permettersi di cantare il gregoriano». Allo stesso
modo noi oggi, nella nuova inciviltà dei fili spinati, potremmo affermare: «Solo chi si mette
dalla parte dei profughi può dirsi democratico».
Buona lettura
INDICE
La dozzina del Premio Strega 2019
Claudio Cherin
Le terre del Sacramento: un coro finale per un romanzo corale
Marco Bucci
Il romanzo e il fumetto. Rapporto e possibilità di fusione
Luca Latini
BRIGNETTI, IL MARE, L’ISOLA E L’IMPOSSIBILE INDIVIDUAZIONE
Noemi Paolini Giachery
Edoardo Sant’Elia Ri(e)mozioni novecentesche Dieci saggi narrativi su dieci idee
Paola Villani
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Ultimo saluto
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Maggio 2019
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Camerini, docente e saggista di illuminata passione
e intelligenza, pubblichiamo come editoriale
una sua lettera per studenti ed ex studenti sul
messaggio ancora (più) attuale dei pirandelliani
Giganti delle montagna, in teatro in Italia con la
visionaria interpretazione di Gabriele Lavia. Ci
sembra urgente e necessaria (F.P.)
Agli ex-alunni del teatro…un grazie e una riflessione
dopo la visione de “I giganti della montagna”
Alla fine il Maestro Gabriele Lavia, nella sontuosa messa in scena cui avete
assistito al teatro Quirino di Roma, ha scelto – con rigore filologico – di rappresentare
il finale incompiuto in cui risuona, angosciosa, l’ultima battuta scritta
dal drammaturgo prima della morte: “Ho paura”.
Ed è lecito, Ragazzi, forse inevitabile “avere paura” oggi. Magari saranno anche
i Fascisti, ma credo che i Giganti siano quanti, nella nostra quotidianità, ci
vivono accanto (spesso perfettamente mimetizzati), incapaci di coltivare non
dico la Parole della Poesia e le suggestioni della Fantasia, ma le norme più
essenziali della convivenza civile, del reciproco rispetto, dell’umanità nella sua
accezione più nobile ed alta. Sono quanti discriminano il prossimo, abbandonano
gli anziani in squallide, umilianti residenze e un bambino di pochi mesi sul
sedile di un’auto mentre fuori fanno 40°, sfigurano le donne con l’acido, uccidono
per essere stati lasciati e appiccano il fuoco per non essere dimenticati.
Voi, senza ritirarvi nella Villa della Scalogna (troppo facile, forse, comunque
inaccettabile alla vostra età), dovete opporre alle “rovine e catastrofi” (Memorie
di Adriano) etiche e morali di uno sconcertante presente, la fede convinta
nei Valori della solidarietà e del reciproco rispetto, nella presenza solidale
e preziosa di “Qualcuno che certo guida il nostro andare quotidiano” (Ritmo,
E. Montale, insospettabile Zaccheo). Cambiando solo un termine nei versi di
Itaca, una lirica che amate (peraltro affine all’originale per il comune campo
semantico del gigantismo): “I Lestrigoni e i Giganti/ o la furia di Nettuno non
temere/non sarà questo il genere di incontri/se il pensiero resta alto e un sentimento/
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo”.
Per non avere paura. Mai.
Il vostro Prof.
Marco Camerini
Buona lettura
INDICE
Quattro lettere inedite di Corrado Alvaro ad Alba De Céspedes
Daniele Orlandi
L’improbabile caso del detective Contini a cavallo tra storia personale e un nuovo caso
investigativo. Intervista allo scrittore ticinese Andrea Fazioli
Eleonora Rothenberger Barbaro
Ignazio Silone e la lotta per “l’oro blu” in Fontamara
Marcella Di Franco
Alberto Moravia e la tecnica della riscrittura
La donna leopardo: un confronto fra la quinta e la sesta stesura
Marco Bucci
Turismo di ieri e turismo di oggi
Monica Masutti
I quarant’anni del Se una notte d’inverno un viaggiatore metaromanzo ed iper-romanzo in
Italo Calvino
Stefano Pignataro
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Distruttori
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Aprile 2019
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Nella lunga parabola del Novecento, i rapporti tra la letteratura e il dominio
della politica mutano radicalmente, trasformando l’immagine dell’intellettuale tradizionale
in una figura nuova che non può fare a meno di misurarsi con la società
che lo circonda.
Dall’avvento della società di massa, le pressioni ideologiche vengono subite
sempre più intensamente, la prosa diviene spesso “militante”, e la stretta convergenza
tra il carattere dei personaggi e la visione di chi scrive appare, in molti
casi, come il naturale riflesso del legame indissolubile che si andava instaurando tra
esperienza biografica e attività letteraria.
Osservare le molteplici relazioni tra la letteratura e il contesto sociale significa in
primo luogo poter rintracciare nella sfera della politica un bacino tematico inesauribile,
una costellazione di temi, motivi, miti e simboli che nel loro intrecciarsi con il
genio artistico individuale hanno potuto alimentare continuamente il campo della
creazione letteraria. Dal tema della memoria, a quello della guerra, della deportazione,
della rivolta, della sconfitta, ciò che più affascina delle implicazioni politiche
in letteratura, fuori dalle pastoie della distorsione propagandistica, rimane l’esplorazione
dell’animo umano di fronte al disordine del mondo.
Nel presente numero di Mosaico, gli interventi proposti si concentrano sull’analisi
di queste tematiche, osservandone le differenti articolazioni a seconda delle poetiche
e delle prospettive culturali degli autori presi in esame. L’articolo di Sandro
De Nobile si focalizza su L’orologio di Carlo Levi, lucida e commossa testimonianza
di una precisa fase della politica italiana, quella della caduta del governo Parri, che
per lo scrittore torinese coincide con la disillusione e il tradimento delle promesse
sorte dalla Resistenza. Sulla narrativa elegiaca e memoriale di Giorgio Bassani si
dedica invece Sonia Trovato, con un intervento incentrato sulla silloge Il romanzo di
Ferrara, desolante spaccato storico-biografico di una generazione e di un mondo,
provinciale e borghese, destinato a scontrarsi con la cruda realtà del fascismo e la
tragedia delle persecuzioni razziali. E sulla scia di un lirismo più filosofico, cupo e
angosciante nella sua gelida razionalità, può essere inserita la figura “postuma”
di Guido Morselli, il quale nel romanzo Il comunista si serve dello scenario politico
per indagare la crisi di una coscienza umana sul piano esistenziale. Nel solco di una
letteratura ribelle, contestataria, di rottura, tipica degli anni ’60 e ’70, si inserisce il
saggio di Beniamino Della Gala che analizza il topos della rivolta nelle opere di Bianciardi,
Cesarano e De Andrè, ragionando sulla complessa dialettica tra individuo e
collettività.
Assumendo una prospettiva d’indagine più ampia, non legata alle opere di singoli
autori, i due articoli conclusivi si soffermano sui rapporti che intercorrono tra
politica e riviste letterarie. Se con il contributo di Daniel Raffini ci avviciniamo alla
vexata quaestio delle contraddittorie relazioni tra il regime fascista e i fogli culturali
di quegli anni, con l’editoriale di apertura della rivista «Zona letteraria» firmato da
Riccardo Burgazzi, qui gentilmente riproposto, ci si interroga sul ruolo che ancora
oggi può essere giocato dalla letteratura n el panorama contemporaneo.
Ringraziando gli editori per avermi dato l’opportunità di curare questo numero
di «Mosaico», auguro a tutti una buona lettura.
Stefano Tieri
INDICE
L’Orologio di Carlo Levi: qualunquismo? Populismo? Meridionalismo?
Sandro De Nobile
Barriere, segregazioni e zone grigie nel Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani
Sonia Trovato
Il comunista di Guido Morselli
Stefano Tieri
«Vengo anch’io. No, tu no». La tensione tra singolo e collettività in rivolta in alcune
rappresentazioni del Sessantotto italiano: Bianciardi, Cesarano, De Andrè
Beniamino Della Gala
Riviste e politica negli anni Venti
Daniel Raffini
Ciò che possiamo fare
Riccardo Burgazzi
Recensione
Verga innovatore
Maurizio Rebaudengo
Rubrica
Responsabilità
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Marzo 2019
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All’insegna dell’amicizia, il presente numero di «Mosaico italiano» raccoglie
contributi e testimonianze scritti e offerti ad Emerico Giachery da colleghi, studiosi,
amici e allievi. L’occasione è data dalla ricorrenza del suo novantesimo
compleanno che cade l’8 febbraio, giorno in cui, destino vuole, era nato anche
l’amatissimo poeta Giuseppe Ungaretti.
Nella sua lunga carriera di docente universitario, di saggista e scrittore,
Giachery ha avuto non solo l’opportunità di insegnare in vari atenei italiani
(Cagliari, Macerata, Genova, L’Aquila, Roma “Tor Vergata”) e all’estero (Berna,
Nancy, Ginevra), ma anche di lavorare su numerosi autori della tradizione
letteraria italiana. Dante, Belli, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale,
Pierro e i dialettali costituiscono, infatti, i punti di riferimento centrali della
sua attività assieme a problemi di metodo critico. E sono proprio gli autori cui
ha dedicato una lunga fedeltà critica, tornando spesso a faticare, o a “godere”
come direbbe Leo Spitzer, sulle loro carte.
Il lungo cammino ha evidenziato un’attività ermeneutica che si fonda, per
dirla in breve, sul fecondo incontro con il testo letterario, visto come uno spazio
multiforme di segni e di sensi, con il quale lo studioso entra in “sintonia”
servendosi, di volta in volta, degli strumenti e dei metodi che sono più consoni
alla sua interpretazione, siano essi filologici, stilistici, tematici o simbolici. In
aggiunta si può ricordare la centralità vitale accordata da Giachery a pratiche
di contatto volte a produrre una conoscenza di più ampio respiro di testi ed
autori: il “sopralluogo letterario”, quasi una verifica sul campo di atmosfere, di
contenuti testuali o di dati biografici; la lettura “ad alta voce”, così frequentemente
praticata anche nelle aule universitarie, in direzione dell’esistenza stessa
del testo, specie poetico, e di una sua possibile maggiore comprensione.
Questo editoriale, però, rischia di diventare un piccolo “biglietto da visita”,
di cui Giachery non ha bisogno. Per giunta, non è per riconoscibilità sua, ma
per riconoscenza nostra che ci siamo messi all’opera. Finisco, allora, augurando
a tutti buona lettura, ringraziando quanti hanno generosamente partecipato
e salutando il Maestro con questa frase di Philip Roth: «Per me non c’è
nient’altro nella vita che valga un’ora di lezione».
Roberto Mosena
I direttori di Mosaico si associano alla dedica per Emerico (e Noemi) Giachery,
con gratitudine, anche per i suoi contributi per la rivista e l’attenzione
verso gli allievi.
Buona lettura
INDICE
ELIO PECORA : per EMERICO nel suo novantesimo compleanno
Per un’ipotesi di lettura. La Commedia dantesca come Bibbia rinnovata
Raffaele Giglio
«La forza di Ungaretti è la /r/». Dizione poetica e microradiografia della voce, con Mario Luzi,
Francesco Nobili Benedetti, Pier Francesco Listri e Emerico Giachery
Roberto Mosena
Lo scrittore–interprete Emerico Giachery
Carmine Chiodo
Un’immagine di Ungaretti: la foglia
Giulio Di Fonzo
Una reciproca lunga fedeltà Per Emerico Giachery e Noemi Paolini Giachery
Marco Camerini
Per Emerico. A voce alta
Fabio Pierangeli
Umanesimo ed humanitas in Emerico Giachery ai Martedi letterari di Salerno.
Giovanna Scarsi
Rubrica
Amore
Francesco Alberoni
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Febbraio 2019
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un barocco baiano italofono
Manuel Botelho de Oliveira è un nome poco noto in Italia. Eppure, è stato il primo
brasiliano a dare alle stampe testi letterari in lingua italiana. Siamo nel 1705 e a Lisbona
esce Música do Parnasso, raccolta di testi lirici in varie lingue, tra cui l’italiano, di gusto
marcatamente secentista. Botelho de Oliveira ha sessantanove anni, vive - da ricco
possidente e da membro della classe dirigente - in posizione di estremo conforto e
benessere. Si occupa di letteratura, scrivendo, leggendo.
L’Italia è una presenza importante nella Salvador del secondo Seicento. La
cattedrale di Salvador si arricchisce, nella sacrestia, di altari dai marmi provenienti
dall’Italia, mentre i dipinti che decorano i mobili della sacrestia giungono direttamente
da Roma, forse - è una delle attribuzioni più probabili - dalla scuola di Maratta. Di più:
Padre Antonio Vieira nel 1681 è di ritorno a Salvador, dopo avere speso oltre cinque
anni della propria vita - la prima metà degli anni settanta - a Roma.
Non deve sorprendere, insomma, che uno scrittore baiano, come Manuel
Botelho de Oliveira, guardi all’Italia. Gli anni della formazione universitaria quest’ultimo
li ha passati proprio nel Continente europeo, a Coimbra. Conosce il castigliano, ma
l’identità iberica, imperiale e coloniale, gli sta stretta. A Gongora e Lope de Vega l’autore
di Música do Parnasso sovrappone Marino, che da autore ovidiano, opera in termini
di deterritorializzazione: la funzione Marino è metamorfica, trasforma il discorso
letterario colonial-iberico in un discorso cosmopolita, aperto, senza confini nazionali.
È la svolta verso la vertente che sarà chiamata decenni più tardi, nel vocabolario
critico-letterario, il “barocco”. Roma e l’Italia rappresentano nell’immaginario baiano
del Sei e Settecento il centro di un potere politico e culturale sconfinato, universale,
un “non-luogo” non della post-modernità, ma della modernità.
Questo numero di Mosaico intende far conoscere il poeta baiano, nella sua
relazione viva con l’Italia, a un pubblico di non addetti ai lavori. Si comincia con
una scelta di due testi italiani di Botelho di Oliveira e di due traduzioni in italiano di
altrettanti componimenti in portoghese dell’autore di Música do Parnasso. A firmare le
traduzioni e le note a piè di pagina sono José Juliano Moreira Santos, Josenir Alcântara
de Oliveira, Roberto Arruda de Oliveira e Carlos Alberto de Souza, laureando della UFC
e borsista Pibic il primo, professori della UFC gli altri tre.
È poi la volta di Enrique Rodrigues-Moura, docente all’Università di
Bamberg, in Germania, intervistato sul Manuel Botelho de Oliveira poliglotta e su
altre questioni critiche e biografiche. Erimar Wanderson da Cunha Cruz, dottorando
del programma PPGLetras/UFC, farà luce sulla donna cantata in Musica do Parnasso,
Anarda, ricostruendone la genesi letteraria, mentre Marcio Henrique Vieira Amaro,
anch’egli dottorando del programma PPGLetras/UFC, analizzerà uno dei poemi del
ciclo di Anarda, collocando in rilievo la convergenza culturale tra il discorso letterario
di Botelho de Oliveira e l’antichità classica.
A proposito dei madrigali in italiano di Música do Parnasso, la traduzione
ad opera di Yuri Brunello, professore del programma PPGLetras/UFC, di un brano
di Francesco Guardiani su Marino, docente alla University of Toronto e studioso
dell’autore dell’Adone metterà in chiaro alcune caratteristiche della forma madrigale
barocca. Sui madrigali in italiano di Botelho de Oliveira si concentra, invece, lo scritto
di Daniella Paez Coelho , dottoranda del programma di Letras alla UFSM. Chiude il
numero una recensione di José Juliano Moreira dos Santos a A “maravilha” na poesia
di Manuel Botelho de Oliveira di Adma Muhana, professoressa dell’Universidade de São
Paulo e affermata studiosa di Botelho de Oliveira.
Il presente lavoro è uno dei risultati delle attività svolte nell’ambito del
progetto di ricerca Manuel Botelho de Oliveira e a nova Grecia, finanziato dal Cnpq
attraverso la Chamada Universal MCTI/CNPq nº1/2016.
Buona lettura!
Yuri Brunello ed Erimar Wanderson da Cunha Cruz
INDICE
Poesie di Manuel Botelho de Oliveira: traduzioni e commenti da Musica di Parnasso
José Juliano Moreira dos Santos, Josenir Alcântara de Oliveira, Roberto Arruda de Oliveira
e Carlos Alberto de Souza
Manuel Botelho de Oliveira, poeta brasiliano tra due continenti e quattro lingue:
intervista a Enrique Rodrigues-Moura
Erimar Wanderson da Cunha Cruz e Yuri Brunello
Il mistero acuto di Anarda
Erimar Wanderson da Cunha Cruz
La poesia como appropriazione degli stili in Manuel Botelho de Oliveira e il dialogo
con la storia dell’arte
Marcio Henrique Vieira Amaro
Da The sense of Marino
Francesco Guardiani
I madrigali italiani del Parnaso musicale di Botelho de Oliveira
Daniella Paez Coelho
Recensione
A “maravilha” na poesia di Manuel Botelho de Oliveira di Adma Muhana
José Juliano Moreira Santos
Rubrica
Delusione d’amore
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Gennaio 2019
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della poesia
«È la gioia eccessiva concessa dalla sirena ai beati abitatori dei suoi agosti
inesauribili.
Nella conclusione della sua Vita di Henry Brulard Stendhal dice: «A
cosa attenermi? Come descrivere la felicità pazzesca? Il lettore è mai stato innamorato
pazzo? Ha mai avuto la fortuna di passare una notte con l’amante
che egli ha amato soprattutto in vita sua?... Davvero non posso continuare;
l’argomento supera chi deve parlare... Forse converrebbe saltare a piè pari
questi sei mesi. Come rintracciare la felicità eccessiva che ogni cosa mi dava?
È impossibile per me».
È la paura della felicità, il no che viene detto alla sirena.
Non a caso, prima di scrivere Il gattopardo e Lighea, Giuseppe Tomasi di
Lampedusa si era abbeverato a quelle pagine.
Intravista da don Fabrizio negli spazi stellari alla fine del capitolo sul ballo
l’immagine materna della stella Venere, la Venere «sempre fedele» che un
giorno finalmente si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero
«nella propria regione di perenne certezza», l’immagine materna della «creatura
bramata da sempre» che si fa incontro al moribondo sotto le spoglie della
giovane donna intravista poco prima alla stazione di Catania, ritorna nella
immagine della Sirena che Platone fa rivivere nelle stelle e che, come la stella
Sirio da cui prende il nome, è la personificazione dei torridi giorni canicolari in
cui il sole percorre il segno zodiacale del leone, la divina abitatrice degli «Agosti
inesauribili», di quelle giornate sospese fuori del tempo in cui gli dei talvolta
soggiornano ancora in Sicilia e in cui appunto viene a compiersi il prodigio
narrato in Lighea.
Parlando della visione di don Fabrizio sul letto di morte la moglie dello scrittore
ha giustamente richiamato una poesia di Fet dove la morte, figlia della
muta Notte e sorella del Sogno, è rappresentata come una giovane donna,
una dea della mitologia greca: «Ma l’illuminata figlia del radioso Febo, piena/
del respiro della silente Notte, l’impassibile Morte,/ incoronando la fronte di
un’immobile stella,/ non conosce né il padre né l’inconsolabile madre».
Nella sospensione delle giornate di mezza estate che sembrano non aver
mai fine, la luce, che irradiandosi uguale dall’alto del tempio del fanciullo
divino si diffonde su Terracina, risveglia in me l’ebbrezza dei giorni di agosto
in cui nel racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si compie l’incontro
con la Sirena, la sensazione di una gioia eccessiva che è la «Grazia pagana»
concessa da quella «Madre saggissima» al divino fanciullo che è stato abitatore
dei suoi «Agosti inesauribili» vivendo in quella condizione di acronicità
che è simile alla inabitazione fetale» (Sabino Caronia, da In campo lungo,
romanzo in uscita nel 2019).
INDICE
Tomasi di Lampedusa: l’ultimo canto della Sirena
Claudia Carella
CREDERE ALLE SIRENE. IL CLASSICISMO IN CALVINO E TOMASI DI LAMPEDUSA
Sabino Caronia
Il dizionario della solitudine nelle lettere di Madame de Sévigné
Ciro Ranisi
Giuseppe Montesano
“Chiedere tutto alla poesia”. Riflessioni attorno al volume curato da Edoardo Sant’Elia
Fuoco. Terra. Aria. Acqua.
La Scapigliatura salernitana: dal cenacolo d’arte di via Tasso n. 59 ai Martedì Letterari
Oriana Bellissimo
Scaffale
A cura della redazione di Mosaico
Rubrica
Bullismo
Francesco Alberoni
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Dicembre 2018
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Il suo secondo libro di poesia, In controtempo (1994), esce per Einaudi (che d’ora in poi sarà la sua casa editrice), venendo accolto con molto favore sulle pagine di L’Unità da Giovanni Giudici, il quale lo giudica un libro che si distacca «nell’orrenda babele di chiasso e chiacchere». Ed è lo stesso Giudici, in questa recensione, ad indicare già due caratteristiche importanti del poeta: il rigore e la suprema pazienza.
La sostituzione arriva nel 2001, confermando l’importanza di alcuni motivi che
ritorneranno anche nei libri successivi, seppur con dei mutamenti, anche di tono: il
paesaggio umano, la pluralità di voci, il rapporto con le persone scomparse, i piccoli
animali, la figura dell’altro, i fili sfilacciati della memoria. Tutti aspetti, questi, che mettono al centro della sua poesia l’esperienza, la sua percezione e i suoi effetti.
I pluripremiati Pasqua di neve (2008) e Ablativo (2013) consolidano ulteriormente la figura di Testa nel panorama poetico italiano. A proposito della pubblicazione del secondo, Alberto Asor Rosa afferma sulle pagine di La Repubblica: «[s]i capisce così che, sperimentalmente parlando, la ricerca di Testa, mentre s’impernia decisamente sul disagio contemporaneo, ne addita al tempo stesso il superamento, inaugurando la proposta di una poesia che, più che dire, addita con esattezza millimetrica le condizioni attuali del nostro esserci – e il loro circostanziato espandersi nel mondo».
L’«andare a pezzi», riscontrato nei libri precedenti, si conferma dunque in Cairn, pubblicato nel 2018. Dopo trent’anni di scrittura poetica, forse qui c’è un passaggio decisivo, un ciclo che si chiude, per aprirsi, chissà, a futuri percorsi.
I saggi qui raccolti testimoniano con le loro acute letture critiche la forza di questa scrittura e di un accento ormai riconoscibile. Ringraziamo per la collaborazione Fabio Moliterni, Paolo Zublena, Fabio Pierangeli, Lucia Wataghin, Patricia Peterle, Sebastiana Savoca, Luiza Faccio e Prisca Agustoni. E in chiusura, un piccolo registro degli ultimi viaggi di Enrico Testa in Brasile.
di Paolo Cacciari
Questo articolo, pubblicato su Il fatto quotidiano del 15 maggio, è stato letto dal poeta Valerio Magrelli nella serie di video “Krisis - Tempos de Covid-19 a cura dei direttori di Mosaico Patricia Peterle e Andrea Santurbano. Ne parliamo in questo numero, dove gli articoli sul viaggio raccontano il desiderio di ripartenza a tutti i livelli, con la speranza che la seconda strada auspicata da Cacciari sia un effettivo cambio di rotta a livello mondiale.
Noto una rimozione, una vera repulsione – anche tra i più obiettivi commentatori – nel considerare la pandemia da Sars-Cov-2 per quello che è: l’ennesimo sintomo della rottura dei cicli vitali della biosfera. Esattamente come lo sono il surriscaldamento dell’atmosfera, l’acidificazione degli oceani, la perdita di fertilità dei suoli e le varie forme di inquinamento delle matrici ambientali. Eppure non occorre essere scienziati per capire che la Terra non regge la pressione di 7,4 miliardi di individui homo sapiens che allevano e mangiano 1,5 miliardi di bovini, 1,7 miliardi di ovini e caprini, 1 miliardo di suini, 1 miliardo di conigli, 52 miliardi (sì, avete letto giusto) di avicoli, oltre a 80 milioni di tonnellate di pesce d’allevamento. Aggiungiamoci un numero non precisato di cani, gatti e di animali selvatici come pagolini, serpenti, pipistrelli, scimmie e il quadro si completa. Questo “regime alimentare” ha una doppia conseguenza: estendere il terreno agricolo occupato da pascoli e da produzioni di mangimi, riducendo di conseguenze gli habitat naturali utili alla vita delle specie animali selvatiche; creare un serbatoio ideale di coltura di virus pronti al “salto di specie” (spillover). Ci si dimentica in fretta, ma le malattie di origine zoonotica negli ultimi decenni sono sempre più frequenti e virulente. Le ricordo alla rinfusa: Hiv, Ebola, Febbre gialla, Sars, encefalopatia spongiforme bovina (mucca pazza), afta epizootica, influenze suine e aviarie. I microorganismi supportano tutte le forme di vita, ma fattori antropogenici (come il cambiamento d’uso del suolo combinato al cambiamento climatico) alterano gli equilibri ospite-simbiote, modificando le risposte ai patogeni, indebolendo i sistemi immunitari, facilitano invasioni batteriche lungo le catene trofiche che legano ogni forma di vita. Durante questa pandemia è stata data la parola a esperti di tutte le discipline mediche e sociali, a pochi biologi e a nessun ecologo. Hanno scritto tre professori dell’Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), Josef Settele, Sandra Díaz, Eduardo Brondizio, Peter Daszak: “La di-lagante deforestazione, l’espansione incontrollata dell’agricoltura, l’agricoltura intensiva, l’estrazione mineraria e lo sviluppo delle infrastrutture, così come lo sfruttamento delle specie selvatiche hanno creato una ‘tempesta perfetta’ per la diffusione di malattie dalla fauna selvatica all’uomo”
[... ]Domandiamoci perché è così difficile riconoscere le cose semplici che si rivelano nella loro evidente casualità. Ci abbiamo messo quarant’anni per capire che bruciare d’un colpo le riserve di fossili accumulate qualche centinaia di milioni di anni fa nel sottosuo-lo avrebbe alterato la composizione chimica della atmosfera provocando l’effetto serra e l’inquinamento da polveri sottili inalabili. Quante pandemie dovremmo passare ancora per capire che è necessario restituire ai dinamismi vitali naturali almeno il 50 per cento della superficie terrestre e dei mari, come chiede l’Half-Earth Progject – che è poi uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu? L’alternativa che ci offre il business as usual è:sterminare tutti gli animali selvatici o vivere dentro uno scafandro sterile. C’è una via diuscita alla orrida distopia: trovare un’equilibrata convivenza tra tutte le specie viventi.
I contributi che vengono proposti, eterogenei per epoche e volutamente trasversali a diversi contesti di studio, si avviano idealmente con l’introduzione al lavoro di traduzione dei sonetti di Camōes curata da Federico Bertolazzi, che restituisce voce ed attualizza la relazione tra modello petrarchesco italiano e fisionomia petrarchista e arcadica della poesia lusofona a partire dal maturo Cinquecento.
Tuttavia, nel procedere dalla Modernità alla Contemporaneità, un ruolo sempre più centrale in questo dialogo è stato giocato tanto dagli aspetti alti ed ufficiali della cultura, della letteratura e dell’arte italiana, quanto pure da accezioni più popolari di queste medesime voci, come del resto già avevano efficacemente affermato Emilio Franzina e Antônio Hohferdt nel volume di Jean-Jacques Marchand sugli esiti letterari dell’emigrazione italiana. La dimensione popolare, filtro particolarmente efficace sin dall’avviarsi dell’Emigrazione Storica italiana, a cavallo tra Otto e Novecento ha acquisito la capacità di agevolare e innescare scambi anche tra le culture ufficiali dei due paesi, divenendo spesso il presupposto e la circostanza della diffusione capillare della letteratura italiana stanziale in terra americana. Sottolinea questa dimensione il contributo di Rino Caputo intorno al libro di Michele Gialdroni, Carcamani, in cui si ricostruiscono le rotte che la letteratura italiana ufficiale protonovecentesca percorre a partire dagli identici percorsi dell’Emigrazione Storica in terra sudamericana.
Se dunque il Novecento, nella sua complessità di laboratorio culturale, politico, economico e sociale, è stato l’alveo in cui si sono rovesciate le logiche antiche e le precedenti fisionomie degli equilibri tra Italia e Brasile, tra i principali mediatori di questi complessi momenti di contatto si deve certamente ascrivere Ruggero Jacobbi. Rodolfo Sacchettini ne descrive qui l’attività di mediazione tra le due tradizioni, sottolineando la centralità riservata alle produzioni dall’anima maggiormente popolare e divulgativa, come quella drammaturgica e dei radiodrammi, e rivelando come per questa via abbia contribuito alla diffusione della conoscenza di autori fino a quel momento poco noti in Italia come Augusto Boal.
Non meno significativa, ancora nel medesimo passaggio tra i due secoli, si rivela la la pratica traduttiva del patrimonio letterario brasiliano in Italiano. Ne fornisce qui testimonianza la complessa vicenda editoriale della traduzione di Vidas secas di Graciliano Ramos, che occupa buona parte del secolo scorso (1938-1998), e che sfocia in un coincidente esito d’elezione della ricezione ramosiana in quegli stessi linguaggi visivi e drammaturgici già prediletti nella mediazione di Jacobbi.
C’è dunque nella matrice divulgativa di questi linguaggi -non esclusivamente volano della cultura popolare cui certamente si riferiscono, ma anche facilitatori delle istanze più colte dei contesti di riferimento- una conferma di reciprocità negli immaginari e nelle condizioni di avvio delle tradizioni di cui sono specchio. È proprio questa dimensione, secondo le teorie più recenti6, che deve essere indagata per poter fornire un efficace strumento di conoscenza delle dinamiche che pervadono l’attuale condizione della produzione anche di origine brasiliana e di espressione italiana. Illustra questa felice intuizione il contributo di Teresa Fiore, che a partire dalla duplicazione degli immaginari, dalla loro reciprocità e dalla stereotipia in cui si formalizzano e che li genera, fornisce una efficace lente d’indagine della dimensione transnazionale e diasporica della produzione odierna, inserendo l’antica relazione tra i due paesi nel bel mezzo della più urgente riflessione letteraria internazionale.
Alessandra Mattei
nascondere! Accettare di essere disumani, a volte incredibilmente disumani, perfino in contesti quasi insignificanti, forse è il primo passo verso un ripensare il nostro avvenire.
Neghiamo ciò che siamo, neghiamo a vari livelli che viviamo quasi in un regime di schiavitù: dal bambino che non ha mai il tempo libero di stare con se stesso, perché oltre alla scuola, deve fare l’inglese, deve fare sport, musica, sottoposto, insomma, ad un regime settimanale il cui programma recita “il tempo dev’essere sempre occupato”, all’adulto,
per cui, in qualche caso, si potrebbe parlare perfino di un’ossessione malata verso il riempimento di questo demone del tempo. Sappiamo stare con noi stessi? Sappiamo convivere con i nostri cari, che ora ci stanno più vicini che mai, seppur nella distanza fisica? Sono domande da porsi dinnanzi a tutto ciò che sta succedendo, ma soprattutto davanti al silenzio inquietante che invade le nostre anime, abitanti in un mondo che è diventato assordante.
Sentire la voce del silenzio, del dolore, dei sentimenti. C’è senza dubbio un silenzio lacerante che occupa una miriade di foto e immagini che ci resteranno nella memoria – speriamo che anche queste non vengano divorate dalla frenesia verso un futuro ancora più instabile. Il silenzio è per esempio presentato in una serie di immagini che hanno girato il mondo, immagini quasi urlanti. Pensiamo alle vie di New York, al loro tran tran diurno e notturno, e a quel vuoto che ora ci invade, penetra “nell’ossa”, per ricordare i versi di Giorgio Caproni. Pensiamo ai camion dell’esercito, uno dietro l’altro, in fila lunghissima lungo via Borgo Palazzo, a Bergamo, epicentro della pandemia in Italia. Oppure alle immagini altrettanto impressionanti degli spazi fieristici di Madrid, ora
adibiti e trasformati in ospedale da campo, il più grande d’Europa, con 5.000 letti.
E poi i numeri: dei contagi, dei guariti, dei morti. Ma dietro ai numeri, che servono per le statistiche (ovviamente importanti), ci sono percorsi di vita, desideri, piani, affetti, memorie che all’improvviso sono stati anestetizzati, quando non definitivamente spenti.
Non è dunque possibile negare questa realtà che ora ci mostra il suo volto surreale, iperreale. È pertanto fondamentale più che mai combattere i nemici della nostra umanità, sentire tutti i silenzi piacevoli e non, lottare per il diritto alla vita, pensare all’altro, affrontare le nostre debolezze e paure.
Questo numero di Mosaico vuole offrire con i testi qui raccolti un momento di riflessione e registrare quest’esigenza facendo ricorso alla memoria letteraria e alla capacità della scrittura di investire i luoghi di un sentire più umano. Un grazie particolare a Luca Di Fusco per l’immagine di copertina che così spiega: «Da una settimana ho ricominciato a dipingere, l’ho fatto in questi giorni di quarantena pensando che mi sarebbe piaciuto essere un medico o un infermiere o uno scienziato, solamente per poter contribuire alla sconfitta di questo maledetto Coronavirus. Ma non ho nessuna di queste qualifiche, ho solo la dote della pittura e così ho deciso di liberare le mie mani sulla tela. L’unico modo che noi abbiamo per poter aiutare a combattere questo virus è quello di restare a casa dimostrando tutto l’amore che abbiamo per noi, per i nostri cari e, soprattutto, per la vita stessa. Solo con l’amore che abbiamo per la nostra Italia, il Covid-19 resterà una brutta pagina daleggere nei nostri libri di storia. Uniti tutti insieme ce la faremo».
sul tema, diamo continuità alla pubblicazione di saggi dedicati allo scrittore italo-
argentino Juan Rodolfo Wilcock, frutto del bellissimo convegno a lui dedicato
dall’Università d’Annunzio di Chieti, il 5-6 dicembre scorso, con l’organizzazione di
Andrea Gialloreto e Stefano Tieri, nell’ambito del progetto internazionale “Archivi
reali e immaginari tra Italia e America Latina”. Vogliamo recuperare in questa
circostanza parole già allora usate per presentare l’opera poliedrica di un autore
tanto straordinario quanto scomodo e irriverente.
Apolide letterario, iconoclasta dei generi, reinventore del quotidiano, umorista
allucinatorio, virtuoso del concetto, deformatore grottesco, riscrittore di se stesso,
satiro iperbolico, creatore di critici eteronomi, lettore eterodosso dei segni del
tempo, Wilcock si trasferisce definitivamente in Italia cominciando a scrivere in
italiano e entrando a far parte a tutti gli effetti della storia letteraria del belpaese,
alla fine degli anni Cinquanta, con una serie già considerevole di opere scritte o
pubblicate in spagnolo, che vanno dalla poesia, alla prosa, al teatro. Costruendo
un collage di citazioni tratte dai saggi di questi due numeri, si può affermare che
«accanto al “trasloco reale di casa, lingua, cultura” (che però significherà per lui,
in perfetta coerenza con l’immagine di sé che ci ha lasciato, muoversi all’insegna
della sinergia, della contaminazione, dell’osmosi, pur dentro una visione se non
propriamente polemica, naturalmente anticonformistica) agisce in Wilcock un’altra
e più intima specie di trasloco, che coinvolge la sua letteratura dall’interno:
quella della transazione, all’insegna di un’intertestualità endogena, che trascorre
lungo i diversi livelli dell’autocitazione e della riscrittura vera e propria». E nella
grande opera creativa che viene così a costituirsi l’autore giunge a toccare «tutte
le corde di uno strumento espressivo tanto personale quanto evocativo delle
“dissonanze” epocali di cui il Novecento si è fregiato: dall’invettiva al grottesco,
dal fantastico all’assurdo, dal macabro allo gnomico, dal lirismo agli algori della
matematica e della filosofia del linguaggio».
In questo secondo numero dedicato a Wilcock l’accento è posto, più specificamente,
sulla sua attività di critico e recensore, sul particolare rapporto con macchine
e dispositivi secondo quanto si evince da alcune sue pagine narrative e sul
suo personale laboratorio poetico a cavallo tra due (e più) culture.
In chiusura, una metodologia di studio del tutto originale sulla figura di uno scienziato,
naturalista e botanico, Domenico Agostino Vandelli, che sarebbe senz’altro
piaciuto allo stesso Wilcock, per un duplice motivo: in primo luogo perché
ne segue lo stesso cammino seppur inverso, nato cioè in Italia e poi trasferitosi
all’estero – in questo caso il Portogallo, acquisendo a tutti gli effetti cittadinanza
culturale in ambito luso-brasiliano; in secondo luogo perché potrebbe anche lui
annoverarsi – giocando per un attimo tra realtà e finzione – tra le famose gallerie
wilcockiane di scienziati e inventori.
I segni del tempo: frammenti di un discorso (in)civile
Seguito da: Tre articoli da «La Voce Repubblicana» di Juan Rodolfo Wilcock
Andrea Gialloreto
Le inquisizioni del Wilcock critico
Luciana Pasquini
Narrativa e dispositivo in Juan Rodolfo Wilcock
Kelvin Falcão Klein
“Chi non ha nome non può morire”: intorno alla poesia di Wilcock
Patricia Peterle
Domenico Vandelli in storie a fumetti. Un nuovo approccio metodologico nello studio della
scienza moderna
Ricardo Dalla Costa
magico oggi. Sguardo incrociato sul Novecento e la contemporaneità che intende
aprire una finestra sui grandi problemi di oggi utilizzando l’eredità di narrazioni e scritture
del secolo passato in maniera da leggere il presente con uno sguardo al futuro.
L’obiettivo è quello di tracciare un percorso che veda come attori principali alcuni
grandi protagonisti della nostra contemporaneità che con loro attività contribuiscono
a scrivere il presente partendo dalla categoria del realismo magico.
La metodologia predominante che verrà utilizzata per sviluppare il progetto
sarà quella della intervista letteraria. L’intervista letteraria che indaga più di altre
forme sull’opera di uno scrittore, secondo quanto afferma una piccola bibliografia
sull’argomento, si sarebbe andata costituendo nel tempo come un genere letterario:
è una idea forse dettata dall’intento di conferire dignità e concretezza a una tecnica
mista, che rinchiude in sé l’informazione e la critica, l’oralità e la sua trascrizione. Se
infatti si assume come necessaria a descrivere il genere la compresenza vis à vis di
un giornalista, o di un critico, e dello scrittore di volta in volta interpellato, entrambi
impegnati in una conversazione finalizzata a indagare un testo e ambientata in uno
spazio comune dovremmo allora escludere che appartenga al genere dell’intervista
letteraria una sequenza di domande e risposte scambiate per telefono, o inviate
tramite Internet, con relativo sacrificio della possibilità di indicare sulla pagina
il passo cui ci si riferisce, rinunciando a un contraddittorio diretto, a ogni forma di
complemento gestuale al discorso di entrambi i locutori, e persino alla certezza di
essere in relazione proprio con la persona desiderata piuttosto che con uno dei suoi
portavoce accreditati. Sempre più spesso, d’altronde, l’abitudine a schiacciare su un
presente immediatamente a portata di stampa ogni riepilogazione del passato e ogni
proiezione nel futuro scoraggia il rituale dell’incontro per sostituirlo con comunicazioni
affidate a supporti telematici.
Non è un caso che l’intervista letteraria nasca come genere in Francia, alla fine del XIX
secolo (quando il romanzo contava già su trionfi consolidati) avendo come precedente
giornalistico i dibattiti politici che comparivano sui giornali americani da cinquant’anni,
e come mediazione ideale i Colloqui di Johann Eckermann con Goethe, che portavano
notizie della sua vecchaia e nutrimenti alla leggenda che da allora ne circondò il nome.
Partendo da queste considerazioni il progetto vuole aprire uno squarcio sul multiforme
mondo della scrittura contemporanea italiana a partire da una chiave di lettura
costituita come abbiamo detto in precedenza dalla categoria del realismo magico per
toccare i grandi temi della esistenza umana.
Saranno, pertanto, realizzate una serie di videointerviste dedicate a uomini di cultura
viventi. Le videointerviste saranno pubblicate su un portale dedicato all’iniziativa
denominato MARWIT (Magic Realism in the wind of time) che sarà in linea dal mese di
aprile 2020.
In questo contesto verranno presentati prossimamente altri contributi e profili di
grandi personaggi della nostra cultura, da scrittori a poeti, da registi a storici che con
la loro attività contribuiscono a scrivere pagine memorabili del nostro mondo.
In questo numero il focus è stato posto su Gabriele Lavia, Attore e Regista, che con la
sua attività scrive e disegna un mondo fantastico che penetra in profondità i segreti
dell’uomo toccando corde e sensibilità che solo un grande intellettuale del nostro
tempo può riuscire ad afferrare.
A colloquio con Gabriele Lavia tra realismo e sogno
Intervista realizzata presso il Liceo Scientifico Statale “Vito Volterra” di Ciampino con la produzione
Arpafilm di Paola Populin
Giovanni La Rosa
“Un classico è un sole che non tramonta mai”. Quando i classici parlano di noi
Evelina Di Dio
Un mio ritratto di Gabriele Lavia
Giovanni Antonucci
La trilogia pirandelliana di Gabriele Lavia e la morte del teatro
Lucilla Bonavita
Breve profilo di Gabriele Lavia
Giovanni La Rosa
Silvio D’Arzo: un estraneo in casa d’altri
Luca Latini
allucinatorio, virtuoso del concetto, deformatore grottesco, riscrittore di se stesso,
satiro iperbolico, creatore di critici eteronomi, lettore eterodosso dei segni del
tempo: sono solo alcune delle definizioni, proposte nei saggi a seguire, e in altri
che saranno ospitati in un prossimo numero, che disegnano la figura eccentrica
e poliedrica di Juan Rodolfo Wilcock, autore argentino naturalizzatosi italiano. E
nello scollinare la soglia di questo nuovo anno, Mosaico può celebrarne un centenario
anomalo, diciamo un 2019+1, alla maniera del 1912+1 sciasciano modulato
da D’Annunzio, o del 18 trasformato in 1+8 di un ex giocatore sudamericano (così
rimaniamo dentro i nostri confini di testata), che era un altro modo per vestire il
9 destinato ad un suo più illustre collega di team, Ronaldo (il Fenomeno). Ecco,
magari questa commistione, un po’ sacrilega e irriverente, potrebbe ben interpretare
lo spirito del nostro.
Wilcock si trasferisce definitivamente in Italia cominciando a scrivere in italiano e
entrando a far parte a tutti gli effetti della storia letteraria del belpaese, alla fine
degli anni Cinquanta, con una serie già considerevole di opere scritte o pubblicate
in spagnolo, che vanno dalla poesia, alla prosa, al teatro. Ma «accanto al “trasloco
reale di casa, lingua, cultura” (che però significherà per lui, in perfetta coerenza
con l’immagine di sé che ci ha lasciato, muoversi all’insegna della sinergia,
della contaminazione, dell’osmosi, pur dentro una visione se non propriamente
polemica, naturalmente anticonformistica) agisce in Wilcock un’altra e più intima
specie di trasloco, che coinvolge la sua letteratura dall’interno: quella della transazione,
all’insegna di un’intertestualità endogena, che trascorre lungo i diversi
livelli dell’autocitazione e della riscrittura vera e propria». E nella grande opera
creativa che viene così a costituirsi l’autore giunge a toccare «tutte le corde di
uno strumento espressivo tanto personale quanto evocativo delle “dissonanze”
epocali di cui il Novecento si è fregiato: dall’invettiva al grottesco, dal fantastico
all’assurdo, dal macabro allo gnomico, dal lirismo agli algori della matematica e
della filosofia del linguaggio».
Le citazioni utilizzate sono già debitrici dei saggi qui raccolti, nonché di un prossimo
dossier sull’autore a cura di Andrea Gialloreto, incentrati su alcuni snodi critici
e tematici che attraversano sincronicamente e sinergicamente la produzione
wilcockiana. Sono essi riassumibili in alcuni poli di tensioni: quale realtà? quale
lingua? quale autorialità? quali frontiere? Oppure, basterebbe rimescolarli tutti
nei versi autografi riportati nel titolo.
Abbiamo lasciato per ultimo i dovuti crediti: questo numero non esisterebbe senza
il bellissimo convegno su Wilcock organizzato all’Università d’Annunzio di Chieti,
il 5-6 dicembre scorso, da Andrea Gialloreto e Stefano Tieri, nell’ambito del
progetto internazionale “Archivi reali e immaginari tra Italia e America Latina”. I
testi qui riuniti rappresentano appunto il primo risultato delle intense giornate
di discussione tra alcuni dei maggiori specialisti dell’opera wilcockiana. Buona
lettura, allora, e buon 2020!
Wilcock e l’unicorno metabolico
Roberto Barbolini
L’«Affondamento» di Robinson
Srecko Jurisic
La reinvenzione del quotidiano, tra cronache, microstorie e vite immaginarie
Andrea Santurbano
L’abominevole realtà?
Giorgio Nisini
Gli avverbi di Wilcock
Raffaele Manica
L’altra lingua di J. Rodolfo Wilcock
Marco Carmello
Tradurre, tradursi
Roberto Deidier
L’autotraduzione nella produzione letteraria di Wilcock: descrizione di un problema
Jeremías Bourbotte
La Roma di Wilcock tra i «candelieri d’oro» e la «palude eterna»
Daniel Raffini
Letteratura e memoria creano un nesso davvero saldo della coscienza dell’uomo:
alla memoria si deve la scrittura di opere immortali della Storia, quali furono.
«Cessate d’uccidere i morti». Tempo della memoria e memoria dell’oblio tra Primo Levi
e Giuseppe Ungaretti
Marilena Ceccarelli
Descrivere e riscrivere l’inferno: Primo Levi e Peter Weiss di fronte ad Auschwitz
Carlota Cattermole Ordóñez
Il rovescio della memoria: I sommersi e i salvati di Primo Levi
Emiliano Ventura
Mai abbaiando tra i cani: Patronimico, Shoah e antisemitismo ne ‘I Cani del Sinai’ di
Franco Fortini
Riccardo Deiana
I colori della metà irrazionale: lo spettro cromatico in ‘Ad ora incerta di Primo Levi’
Giulio Carlo Pantalei
le Confessioni di Agostino e ancora il celebre (e quasi canonico) romanzo
di Proust. Il meccanismo memoriale che è alla base della costante attività del
protagonista della Recherche, riflette e attraversa tempo e generi: cos’è la Vita
nova senza la camera della memoria da cui nasce il ricordo operoso e attivo
di Beatrice? Cosa sono, per restare ancora nella tradizione letteraria italiana,
i Rerum vulgarium fragmenta se non il ricordo di un pentimento passivo e mai
davvero esaurito ma lontano sì dalla voce dell’io lirico che sconta i suoi peccati
ormai lontani negli anni? Talvolta nel corso dei secoli, la memoria e la scrittura
che dà sfogo al ricordo si intrecciano riconoscendo, de facto, al destino del
singolo un valore emblematico. Sarà difficile crederlo per un lettore che non
è avvezzo al mondo medievale, ma, dopotutto, la disperata consolazione di
Boezio, incarcerato per le sue idee e per il suo essere “romano” in un mondo
“barbaro”, è solo apparentemente il grido di disperazione del singolo; dietro
Boezio vi è la trasformazione (e anche la rottura) di un equilibrio sociale. Il mondo
è cambiato. L’impero è caduto. Il pianto dell’uno si riflette sul dramma dei
molti. L’io è protagonista e testimone della tragedia.
Secoli dopo, quanto vissuto da Primo Levi e da altre milioni di persone segna
tanto una pausa evolutiva quanto una lacerazione profonda nella Storia
dell’uomo. Ecco la Shoah. Ecco che Levi nel doppio ruolo di osservatore e protagonista
è costretto a chiedersi se l’uomo – ma non il carnefice, piuttosto il
complice passivo costretto alla fame nei campi di concentramento – sia davvero
un uomo. Non diversamente, uno scrittore europeo (oggi quasi per nulla
letto in Italia), quale fu Stefan Zweig, prima che l’orrore si consumasse si chiedeva
le ragioni che avevano portato la società tedesca sul baratro di una crisi
etica inspiegabile. La risposta di Zweig fu il silenzio: scelse, infatti, la strada
del suicidio. Levi, invece, decise che era necessario raccontare, trasmettere,
descrivere, narrare. Obiettivo dei saggi che ho avuto il piacere di raccogliere in
questo numero di “Mosaico” è di offrire una riflessione memoriale sull’evento
catastrofico-centrale della vita di Levi: la Shoah. E quale occasione migliore
di un centenario? Del primo centenario dalla nascita di Levi? Il numero – per
il quale sono grato all’amico Fabio Pierangeli, è dedicato agli stessi autori che
hanno raccolto il mio invito a collaborare – assume una dimensione duplice,
micro e macroscopica: i saggi di Marilena Ceccarelli e di Giulio Carlo Pantalei,
che aprono e chiudono il volume quasi sigillandolo, sono dedicati alla produzione
poetica di Levi (la meno celebre, viene esaminata con prospettive e
attenzioni differenti); Cattermole Ordóñez descrive l’“inferno” di Primo Levi
e di Peter Weiss secondo una chiave “dantesca”; Emiliano Ventura offre una
disamina de I sommersi e i salvati, scorgendo interessanti parallelismi con Jean
Améry; Riccardo Deiana, infine, dedica un interessante saggio al problema
dell’ebraismo in Franco Fortini. L’augurio per il lettore e per chi ha partecipato
al volume è che anche attraverso queste scritture si possa tanto continuare
a cercare la Verità, quanto con essa provare a valorizzare una Memoria che,
nei giorni in cui si licenzia questo numero di Mosaico, appare troppo spesso relegata al pericoloso oblio.
l’arte e le mediazioni col reale
Agli occhi del passante o turista frettoloso è appena un’anticamera o una sorta
di area di disimpegno della celebre e imponente Piazza Duomo a Milano; eppure,
nel prossimo mese di dicembre verranno celebrati i cinquant’anni da che
è diventata simbolo di qualcosa di diverso e di tremendo. Parliamo di Piazza
Fontana, dell’esplosione della bomba all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura,
che dilaniò a morte 17 persone, lasciandone molte altre ferite. Luogo,
dunque, che si è caricato di storia, marcando idealmente l’inizio degli anni
di piombo e della cosiddetta strategia della tensione, che si sarebbe protratta
fino al 1980, quando un’altra esplosione devastante lascerà 85 morti nell’atrio
sventrato della stazione di Bologna. Luogo marginale, quasi insignificante, ma
di cui basta il nome per riaprire una breccia memoriale, come suggerisce una
bella poesia di Giovanni Raboni.
E questo vuole essere solo un esempio di quello che nelle pagine di un libro si
trasforma, per dirla con Bachtin, in un cronotopo; cioè, in quel punto di congiuntura
spazio-temporale tra autore e realtà che impregnano l’opera dei motivi
che la caricano di significati circostanziali, e dove quindi l’artistico e il letterario
lasciano la loro impronta e si pongono come privilegiata chiave di lettura
e riflessione. Scrive Friedrich Dürrenmatt: “L’arte, la letteratura, sono, come
qualunque altra cosa, un confronto col mondo. Una volta afferrato questo, ne
potremo intravedere anche il senso”.
Spazi – urbani principalmente, ma non solo – e tempi – della cronaca e della
storia –, riletti dal filtro dell’arte e della letteratura, sono appunto le coordinate
che orientano i saggi qui presentati: da uno spaccato londinese di Michelangelo
Antonioni, percepito attraverso le mediazioni tra racconto, foto e cinema,
alla Ferrara di Bassani nella sua mediazione con la pittura di Morandi; dagli
itinerari che segnano l’esperienza traumatica di Primo Levi, dentro e fuori i
campi di concentramento, alla Napoli del dopoguerra colta dalla penna incisiva
di Clarice Lispector; dalla Milano, come detto, di Giovanni Raboni, ma anche
di Michele Mari, alla Venere di Rivoli (o degli Stracci) di Michelangelo Pistoletto
riproposta nella poesia di Enrico Testa. Contaminazioni tra linguaggi diversi
e, a volte, complementari che ci obbligano a riconsiderare costantemente il
nostro rapporto con una realtà sempre in via di definizione.
Visualizzazione percettiva: uno sguardo su Blow-Up di Michelangelo Antonioni
Thaís Aparecida Domenes Tolentino
Muri, giardini e confluenze tra la scrittura di Bassani e la pittura di Morandi
Izabel Dal Pont
Il camminare nell’opera di Primo Levi
Helena Bressan Carminati
“Qui, tutto ha un colore sbiadito…”: Napoli nella corrispondenza di Clarice Lispector
Luigia De Crescenzo
La storia “dove forse non c’è”
Elena Santi
Sto “con i mattoni cotti nella fornace comune”: Enrico Testa
Luiza Kaviski Faccio
Recensione
Alla riscoperta di Ercole Patti
di Franco Zangrilli
Un pacchetto di Gauloises.
Guido Morselli, «lui ci manca»
La biografia narrativa di Linda Terziroli, Un pacchetto di Galuloises, edita da
Castelvecchi, permette di tornare a parlare di Guido Morselli, scomparso
nel 1973. Il titolo allude all’ultima istantanea della narrativa dello scrittore
varesino, in Dissipatio H.G: l’attesa speranzosa, non priva di indizi concreti,
la sigaretta appunto, di incontrare di nuovo l’unico vero amico di sempre, il
dottorino Karpinski, e fumare con lui, scambiare delle parole, forse abbracci,
in quel clima apocalittico, in cui tutto il genere umano sembra scomparso,
evaporato. Ed uno solo, il protagonista, il malcapitato, o il fortunato, rimasto
l’unico a poter raccontare, da morto, da vivo?!, quella atmosfera straniante.
Karpinski, come Cristo nella trilogia di Fede e critica, gli manca.
La biografia della Terziroli, come l’articolo donato a Mosaico dalla storica
curatrice delle opere di Morselli, Valentina Fortichiari, testimonia che figure di
intellettuali nobili, non allineate, originali, ci mancano.
Non a caso, su tematiche contemporanee, agli articoli dedicati a Morselli,
ne seguono due su scrittori, per diversissime ragione, tra i pochi ad
accostarsi ad un pensiero libero come quello di Guido: Giuseppe Yusuf
Conte e Eraldo Affinati.
I brani seguenti dal Diario di Guido Morselli offrono diversi spunti di attualità,
anche per l’inizio del nuovo anno accademico e scolastico:
Mi piace l’intelligenza autonoma. Autonoma anche dall’attualità della
cultura. Mi piace l’intelligenza perfino svincolata dall’informazione.
Mi danno fastidio le intelligenze nelle quali il primo ruolo è assegnato
all’aggiornamento. La presenza troppo affiorante della cultura eccessivamente
aggiornata toglie al talento l’attributo universale, lo trasferisce
(e lo riduce) al particolare. Il nostro secolo, ricchissimo di informazioni
ovviamente nuove, ha un umanesimo più pregno di aggiornamenti
culturali che di intelligenza”.
L’erudizione è un possesso statico, acquisito una volta per tutte, che una
salda memoria basta a conservare. La cultura dell’individuo è sempre sul
farsi, o non è. L’uomo colto non è chi sa, ma chi apprende.
Cólto – e non puramente erudito, quantunque “sappia”molte cose – è
l’uomo che sente il dovere di alimentare il proprio spirito assiduamente,
quotidianamente: e che adempie a questo dovere verso di sé con diligenza,
con tenacia, quali che siano (e magari avverse, impropizie) le circostanze in
cui si trova a vivere.
Leggere Guido Morselli oggi
Valentina Fortichiari
L’America, Il comunista, mio fratello
Linda Terziroli
Un lunga fedeltà. Linda Terziroli e il suo Guido Morselli
Luigi Mascheroni
Il padre, le donne, i rifiuti. Istantanee di Guido Morselli
Davide Brullo
La frusta del sadico e l’invenzione della letteratura. I senza cuore di Giuseppe Conte
Fabio Pierangeli
Dono del presente, scommessa per il futuro: “l’altra scuola” di Eraldo Affinati
Marco Camerini
Scaffale, libri e teatro
a cura di Mosaico
tra scambi e
migrazioni culturali
L’Italia e il Brasile sono tra loro profondamente legati. I nessi migratori che
hanno portato tra XIX e XX secolo numerosissimi italiani nel Gigante sudamericano
sono solamente l’ultimo anello di una catena molto stretta, socialmente stratificata
e pluriforme di relazioni culturali e politiche che percorrono l’intera epoca moderna:
confluita in un reciproco contributo, seppure con modi e tempi diversi, alla definizione
della fisionomia identitaria di entrambi i paesi attraverso la frequentazione dei propri
immaginari. Questi vincoli di prossimità, che partendo dal dettato letterario si sono
rivestiti di una valenza fieramente civile, riemergono con sorprendente vivacità in
fenomeni migratori contemporanei dalle rotte inverse.
Nel contesto letterario italiano esse si giovano di un terreno particolarmente
favorevole, che ha fornito l’humus necessario alla frequentazione del Brasile da parte
di autori italiani all’inizio del Novecento e all’insediamento di autori brasiliani in Italia
a partire dagli anni Cinquanta. Ciò è potuto accadere grazie a un’opera massiccia
di traduzioni e alla mediazione di poeti, scrittori e intellettuali come Ungaretti, che
attraversò il lustro brasiliano in una duplice riflessione sulla propria poetica e sulle
tradizioni e specificità del paese ospite; o come Ruggero Jacobbi, che sin dagli anni
Quaranta lavorò per traslare gli aspetti a suo avviso più importanti e radicalmente
qualificanti della produzione letteraria brasiliana nel contesto italiano: contribuendo
a legare alla ricerca letteraria italiana impegnata nel recupero del valore democratico
della cultura dopo la dittatura fascista, lo sforzo di molti intellettuali esuli o fuoriusciti
che in quegli anni si allontanavano dal Sud America alla volta dell’Europa per condurre
le proprie battaglie e rivendicazioni democratiche.
Se in Italia il Brasile si è mantenuto luogo e archetipo di un immaginario non solo
letterario dal processo risorgimentale ad oggi, anche l’Italia ha finito per rappresentare
per il Brasile un topos, che dopo aver incarnato un modello culturale cui esemplarsi
nel periodo delle grandi Accademie, nel corso del Novecento e dei più recenti anni
Duemila è stato tanto luogo di accoglimento di molti intellettuali esuli o dissidenti,
quanto luogo letterario simbolo della civiltà occidentale per antonomasia: erede della
classicità, che oggi soffre esposta al pericolo del declino di quella modernità di cui è
emblema; o voce corale di una natura popolare di cui l’emigrazione storica è stata
altra e complementare testimonianza.
Tutto ciò ci consegna oggi una reciprocità operante nella più importante
comunità poetica translingue d’Italia, che innesta nella produzione italiana lo specifico
portato del proprio ingaggio fieramente civile, democratico e impegnato per la lotta
ecologista.
Alessandra Mattei
INDICE
Un poeta italiano ai tropici: la San Paolo di Giuseppe Ungaretti
Ettore Finazzi-Agrò
L’Italia, la guerra e la forza in un romanzo di Boris Schnaiderman
Giorgio de Marchis
Immigranti di ieri e di oggi tra Italia e Brasile: un mosaico nel mosaico
Emilio Franzina
Un romanzo interrotto di Ruggero Jacobbi
Franzisca Marcetti
Un contadino in croce: Jacobbi, Dias Gomes e l’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato
Rodolfo Sacchettini
Relazioni letterarie nella poesia translingue di autori di origine brasiliana ed
espressione italiana. Considerazioni preliminari.
Alessandra Mattei
Recensione
Lupa in fabula, di Manuela Lunati
A cura di Yuri Brunello e João Francisco de Lima Dantas
Rubrica
Amore e amante
Francesco Alberoni
PASSATEMPO
Settembre 2019
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Elena Santi
Grafico
Wilson Rodrigues
come variabile
della società
La direzione di Mosaico ringrazia il poeta e saggista Beppe Mariano, da anni collaboratore
della rivista, per gli articoli legati ad uno dei più interessanti movimenti poetici
oggi in Italia: il realismo terminale che ha in Giuseppe Langella e Guido Oldani i rappresentanti
di spicco. Ne presentiamo, grazie ancora a Mariano, alcune liriche e il manifesto
del loro movimento.
Lasciamo la parola a Beppe:
«Partendo dall’assunto che il linguaggio è una variabile della società e quindi si
evolve con essa, abbiamo constatato in questi anni quanto le nuove tecnologie abbiano
influenzato la scrittura. Periodi brevi, brevissimi, forme del parlato e del mugugno
perfino, anglismi esuberanti e non necessari, neologismi disinvolti, segni grafici
d’interpunzione... e così via.
Ed è all’interno delle figure retoriche che si può meglio notare tale cambiamento per
mezzo ad esempio dell’evoluzione della metafora.
Per molto tempo si è usato, scrivendo, forme metaforiche legate ai cicli rurali e artigianali,
quali ad esempio “tessere parole”. “l’aratro dell’avvenire”, “seminare idee”
ecc. Forme metaforiche ancora in voga oggi. È solo venuta meno la metafora carducciana
del poeta paragonabile al grande artiere, probabilmente perché ha assunto un
sapore retrò di retorica esuberanza. Continuiamo invece a tener salda la metafora che
Ezra Pound aveva tratto dalla classicità al fine di equiparare la poesia di Eliot al maglio
del fabbro. […] Giacché il linguaggio è una variabile della società, possiamo chiederci
quale linguaggio possa oggi corrispondere alla frantumazione della realtà e alla sua
progressiva sostituzione con la cosiddetta realtà virtuale (ad esempio nella realtà del
computer, saremo sempre più “connessi” e “globali”: tant’è che al posto del vecchio
“sbullonarsi” dovremmo scrivere “sconnettersi”). […] La lingua nelle sue varie forme
espressive potrà ancora nominare la Natura tramite i suoi componenti (mare, cielo,
montagna, laghi, fauna, flora) come se fosse ancora completamente naturale? O non
dovrà invece testimoniare a livello poetico le intrusioni artificiali?
Già del resto il condizionamento psico-fisico che subiamo ad esempio dall’automobile
dominante è tale che quando sento pronunciare la parola “albero” penso prima
all’albero-motore della macchina.
Ugualmente auspico ogni giorno che l’orizzonte naturale e metaforico sia schiarito da
un tergi-orizzonte e che io possa così avviarmi sereno verso una cielostrada».
Buona lettura
Gli editori
INDICE
LA SIMILITUDINE ROVESCIATA O DEL REALISMO TERMINALE
Beppe Mariano
Manifesto del realismo terminale
Saliscendere la montagna della parola. La raccolta di Sergio Gallo e altre segnalazione
di poesia
Beppe Mariano
“Variazioni” di vita nei versi di Amelia Rosselli. In merito al saggio di Sara Sermini
Barbara Stazi
DOVE SORGEVA ALBA LONGA?
Intervista di Aldo Onorati a Riccardo Bellucci
Scaffale
a cura di Mosaico
Rubrica
Ultimo saluto
Francesco Alberoni
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Agosto 2019
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contemporaneo
Sempre più filosofi italiani, nel corso degli ultimi anni, sono saliti alla ribalta del dibattito
internazionale, politico e culturale. Giorgio Agamben, Roberto Esposito, Emanuele
Coccia, solo per citare alcuni nomi, sono ormai punti di riferimento nelle bibliografie
di molte istituzioni accademiche, dentro e, soprattutto, fuori dall’Italia. La letteratura
e l’arte in generale possiedono spesso il proprio oggetto senza “conoscerlo”, mentre
la filosofia può arrivare a conoscerlo senza “possederlo”. In questo circolo virtuoso si
può pensare a sfere della creazione e del sapere che si inseminano a vicenda, suscitando
riflessioni sulla vita, sulla morte, sul nostro stare al mondo e continuare a esistere
come individui, insomma. Sembrerebbe poco, scontato o addirittura retorico, ma di
antidoti contro un’ebetudine indotta e generalizzata c’è più che mai bisogno.
Altrettanta ripercussione ha guadagnato negli ultimi anni l’idea che il “pensiero italiano”
abbia sempre costituito, sin dalle sue origini (Dante, Machiavelli, Vico), un approccio
originale, coerente e omogeneo al modo di concepire in stretto dialogo e con
mutua proficuità sfere come storia, politica e cultura. Questo senza schematismi disciplinari
e rompendo una prospettiva cronologica e storicistica. Certamente questo non
sarà il luogo per risolvere tale questione, ma per darne almeno conto sì.
In tal senso questo numero raccoglie brillanti contributi di studiosi e professori di università
brasiliane, di teoria e letterature comparate, scaturiti da un incontro realizzatosi
nello scorso mese di giugno presso l’Universidade Federal de Santa Catarina
(Florianópolis, Brasile), dal titolo appunto “Literatura e arte no pensamento italiano
contemporâneo”.
Al centro degli interventi vi sono soprattutto Roberto Esposito e il suo pensare la filosofia
nell’esperienza del cronachismo giornalistico, ancora Esposito con una riflessione
su bio e tanatopolitica, Enzo Traverso e il ripensare una sinistra oggi e Emanuele
Coccia con il suo elogio alla vita delle piante e, al contempo, con la proposta di una
nuova forma di relazione tra mondo umano e vegetale. Nella letteratura tante di queste
riflessioni prendono icasticamente forma, com’è il caso di un racconto di Santiago
Dabove, inserito nella famosa Antologia del racconto fantastico di Borges, Ocampo e
Bioy Casares, oppure dell’opera trasversale di un autore come Giovanni Raboni, in cui
si fa spazio il pensiero dell’inattualità, o meglio, dell’anacronismo. Ancora più urgente
e doveroso è infine uno sguardo sull’immigrazione in Italia, che tante delle questioni
in gioco riassume, attraverso l’opera interculturale dello scrittore italo-algerino Amara
Lakhous.
Buona lettura!
Gli editori
INDICE
Raccontando casi: Roberto Esposito e lo stile della filosofia come esperienza
Pedro de Souza
Il vivo e il morto nel pensiero italiano (da Vico a Enzo Traverso)
Kelvin Falcão Klein
Dalla vita delle piante all’ontologia della polvere
André Zacchi
Voci in dialogo: intersezioni a partire da Alcesti di Giovanni Raboni
Elena Santi
Voci migranti: la letteratura dello shock migratorio
Giorgio Buonsante
Rubrica
La bottega del Verrocchio
Francesco Alberoni
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Luglio 2019
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margini, autorialità
e altri abissi della finzione
Elena Ferrante è un’autrice di grande successo internazionale. Tra le
ragioni della sua notorietà vi è una circostanza piuttosto inconsueta nella scena
letteraria italiana (e non solo italiana), vale a dire la scelta sistematica e
persistente dell’anonimato circa il referente autoriale extratestuale. Il che ha
suscitato interesse e forte curiosità quanto alla sua identità. È nel 1992 che la
Ferrante esordisce con l’opera L’amore molesto. Da allora ha pubblicato altri
due romanzi, I giorni dell’abbandono e La figlia oscura, un libro per bambini,
La spiaggia di notte, un libro di saggi, articoli e interviste, La frantumaglia e
la recentissima raccolta di articoli L’invenzione occasionale, oltre alla quadrilogia
L’amica geniale, proposta letteraria che l’ha resa popolare in tutto il mondo
e, dunque, anche in Brasile.
Questo numero di “Mosaico italiano” si prefigge l’obiettivo di rispondere
ad alcune questioni relative alla Ferrante. Che cosa Elena Ferrante narra
a proposito dei nostri conflitti e dilemmi? Che trucchi delineano il cammino dei
suoi personaggi? A partire dai dialoghi con l’antichità classica e con il cinema
del secolo XXI, che politiche si producono nella sua scrittura? Il desiderio di
pensare queste e altre questioni relative alla singolarità dell’opera ferrantiana
ha riunito alcuni dei suoi studiosi nel colloquio internazionale Elena Ferrante:
margens, autorias e outros abismos da ficção, nei giorni 19 e 20 novembre 2018
all’Universidade Federal do Ceará (programma di Pós-Graduação PPGLetras)
durante il quale sono stati concepiti i testi inclusi in questo numero speciale di
“Mosaico italiano”.
Hanno collaborato Matteo Palumbo, professore dell’Università di
Napoli “Federico II”, Márcia Rios da Silva, coordinatrice e professoressa del
PPGEL/UNEB, Emilia Rafaelly Soares Silva, dottoranda del PPGLetras/UFC e docente
dell’IFPI, Francisco Romário Nunes, professore della UESPI e dottorando
del Programa de Pós-Graduação em Literatura e Cultura da Universidade
Federal da Bahia (UFBA), Giselle Andrade Pereira, mestranda del PPGLetras/
UFC, Juliana Braga Guedes, dottoranda del PPGLetras/UFC e borsista CAPES,
Maurício Santana Dias, docente all’Universidade de São Paulo (USP), nonché
uno dei traduttori brasiliani di Elena Ferrante.
Il dossier Ferrante, organizzato da un docente permanente e da due
dottorande del PPGLetras/UFC, si profila come uno spazio di discussione sulla
produzione letteraria di Elena Ferrante. Femminismo, violenza e autorialità saranno,
pertanto, termini chiave per leggere, attraverso l’immaginario ferrantiano,
l’abisso e i labirinti del nostro presente e della nostra anima.
Yuri Brunello, Emilia Rafaelly Soares Silva, Amanda Jéssica Ferreira Moura
Buona lettura!
INDICE
Elena Ferrante nella letteratura napoletana contemporanea
Matteo Palumbo
L’enigma Elena Ferrante, una scrittrice geniale
Márcia Rios da Silva
Le storie delle madri che fuggono e che restano
Emilia Rafaelly Soares Silva
Lo spazio napoletano nel romanzo: L’amore molesto di Elena Ferrante
Francisco Romário Nunes e Giselle Andrade Pereira
La smarginatura ne L’amica geniale
Juliana Braga Guedes
Cinque domande a Maurício Santana Dias a proposito di Elena Ferrante
Amanda Jéssica Ferreira Moura
Rubrica
La bottega del Verrocchio
Francesco Alberoni
Giugno 2019
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uno spirito in movimento,
«disposto a farsi colpire»
Entriamo nella stagione dei Premi letterari. L’articolo di Claudio Cherin, docente e saggista
esperto di narrativa contemporanea, offre un panorama dei dodici libri candidati
al premio più blasonato lo Strega. Ognuno compie le sue scelte personali. Un libro
come quello di Eraldo Affinati, Via dalla pazza classe. Educare per vivere, Mondadori,
2019, non rientra nei canoni del Premio e della narrativa in generale, contaminando,
come abitudine dello scrittore romano, microstorie, letture e commenti di libri altrui
al racconto di esperienze personali di ambito scolastico. Si legga questa pagina, del
capitoletto La scienza dei limiti, nella prima delle sei sezioni del volume, La scuola di
Penny. Come Affinati ha imparato nel suo lungo viaggio di insegnante e scrittore così i
volontari della Penny, scuola di italiano per stranieri su base completamente volontaria,
vedono in azione il senso del limite, imparano dai deboli:
Nella sua inquietudine vibrante e insoddisfatta si nasconde la fragilità spirituale del mondo
occidentale contemporaneo; ecco perché gli immigrati, nel momento in cui ci svelano
la nostra solitudine, potrebbero lenirla. Abdullah porta ancora sul ginocchio il segno
della pallottola che ha reciso i suoi tendini. L’anca è lesionata. Fino a un anno fa, abitava
insieme alla moglie e ai figli a Mogadiscio. È stato costretto ad abbandonare l’intera famiglia,
le cui immagini ora custodisce nel cellulare. Una bambina sta in piedi come una sentinella
dentro un cortiletto spoglio. Una ragazza mostra un volto di bambola. Mentre fa
gli esercizi sui verbi, Abdullah piega la testa sul banco, spossato. Al centro di accoglienza
gli hanno dato una confezione di Aulin: oggi ha già preso quattro compresse, ma il dolore
non passa. Flavia vorrebbe aiutare questo giovane somalo, sebbene non sappia in quale
modo. Mi viene in mente che potrei usare il microfono per chiedere se c’è un medico in
sala, come usa in treno o in aereo quando un passeggero si sente male. Poi desisto, forse
perché decifro negli occhi ansiosi della nostra volontaria la compassione che nel Vangelo
di Luca spinge il buon Samaritano a soccorrere il viaggiatore assalito dai briganti, ma
anche la scienza dei limiti che ogni educatore è chiamato ad apprendere nella frontalità
temeraria della sua posizione.
Proviamo a pensare se questo atteggiamento a tu per tu con la persona adesso davanti
a noi, alla Penny Wirton, lo portassimo anche altrove, tenendo presente il luogo verbale
dell’incontro umano che stiamo realizzando: in quel caso l’azione educativa sarebbe
l’avanguardia di una rivoluzione prepolitica, non distante dall’ideale di “vita comune”
predicato da Dietrich Bonhoeffer quando, negli anni del Terzo Reich, sosteneva: «Solo
chi alza la voce in difesa degli ebrei può permettersi di cantare il gregoriano». Allo stesso
modo noi oggi, nella nuova inciviltà dei fili spinati, potremmo affermare: «Solo chi si mette
dalla parte dei profughi può dirsi democratico».
Buona lettura
INDICE
La dozzina del Premio Strega 2019
Claudio Cherin
Le terre del Sacramento: un coro finale per un romanzo corale
Marco Bucci
Il romanzo e il fumetto. Rapporto e possibilità di fusione
Luca Latini
BRIGNETTI, IL MARE, L’ISOLA E L’IMPOSSIBILE INDIVIDUAZIONE
Noemi Paolini Giachery
Edoardo Sant’Elia Ri(e)mozioni novecentesche Dieci saggi narrativi su dieci idee
Paola Villani
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a cura di Mosaico
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Ultimo saluto
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Maggio 2019
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Wilson Rodrigues
Camerini, docente e saggista di illuminata passione
e intelligenza, pubblichiamo come editoriale
una sua lettera per studenti ed ex studenti sul
messaggio ancora (più) attuale dei pirandelliani
Giganti delle montagna, in teatro in Italia con la
visionaria interpretazione di Gabriele Lavia. Ci
sembra urgente e necessaria (F.P.)
Agli ex-alunni del teatro…un grazie e una riflessione
dopo la visione de “I giganti della montagna”
Alla fine il Maestro Gabriele Lavia, nella sontuosa messa in scena cui avete
assistito al teatro Quirino di Roma, ha scelto – con rigore filologico – di rappresentare
il finale incompiuto in cui risuona, angosciosa, l’ultima battuta scritta
dal drammaturgo prima della morte: “Ho paura”.
Ed è lecito, Ragazzi, forse inevitabile “avere paura” oggi. Magari saranno anche
i Fascisti, ma credo che i Giganti siano quanti, nella nostra quotidianità, ci
vivono accanto (spesso perfettamente mimetizzati), incapaci di coltivare non
dico la Parole della Poesia e le suggestioni della Fantasia, ma le norme più
essenziali della convivenza civile, del reciproco rispetto, dell’umanità nella sua
accezione più nobile ed alta. Sono quanti discriminano il prossimo, abbandonano
gli anziani in squallide, umilianti residenze e un bambino di pochi mesi sul
sedile di un’auto mentre fuori fanno 40°, sfigurano le donne con l’acido, uccidono
per essere stati lasciati e appiccano il fuoco per non essere dimenticati.
Voi, senza ritirarvi nella Villa della Scalogna (troppo facile, forse, comunque
inaccettabile alla vostra età), dovete opporre alle “rovine e catastrofi” (Memorie
di Adriano) etiche e morali di uno sconcertante presente, la fede convinta
nei Valori della solidarietà e del reciproco rispetto, nella presenza solidale
e preziosa di “Qualcuno che certo guida il nostro andare quotidiano” (Ritmo,
E. Montale, insospettabile Zaccheo). Cambiando solo un termine nei versi di
Itaca, una lirica che amate (peraltro affine all’originale per il comune campo
semantico del gigantismo): “I Lestrigoni e i Giganti/ o la furia di Nettuno non
temere/non sarà questo il genere di incontri/se il pensiero resta alto e un sentimento/
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo”.
Per non avere paura. Mai.
Il vostro Prof.
Marco Camerini
Buona lettura
INDICE
Quattro lettere inedite di Corrado Alvaro ad Alba De Céspedes
Daniele Orlandi
L’improbabile caso del detective Contini a cavallo tra storia personale e un nuovo caso
investigativo. Intervista allo scrittore ticinese Andrea Fazioli
Eleonora Rothenberger Barbaro
Ignazio Silone e la lotta per “l’oro blu” in Fontamara
Marcella Di Franco
Alberto Moravia e la tecnica della riscrittura
La donna leopardo: un confronto fra la quinta e la sesta stesura
Marco Bucci
Turismo di ieri e turismo di oggi
Monica Masutti
I quarant’anni del Se una notte d’inverno un viaggiatore metaromanzo ed iper-romanzo in
Italo Calvino
Stefano Pignataro
Scaffale
a cura di Mosaico
Rubrica
Distruttori
Francesco Alberoni
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Aprile 2019
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Nella lunga parabola del Novecento, i rapporti tra la letteratura e il dominio
della politica mutano radicalmente, trasformando l’immagine dell’intellettuale tradizionale
in una figura nuova che non può fare a meno di misurarsi con la società
che lo circonda.
Dall’avvento della società di massa, le pressioni ideologiche vengono subite
sempre più intensamente, la prosa diviene spesso “militante”, e la stretta convergenza
tra il carattere dei personaggi e la visione di chi scrive appare, in molti
casi, come il naturale riflesso del legame indissolubile che si andava instaurando tra
esperienza biografica e attività letteraria.
Osservare le molteplici relazioni tra la letteratura e il contesto sociale significa in
primo luogo poter rintracciare nella sfera della politica un bacino tematico inesauribile,
una costellazione di temi, motivi, miti e simboli che nel loro intrecciarsi con il
genio artistico individuale hanno potuto alimentare continuamente il campo della
creazione letteraria. Dal tema della memoria, a quello della guerra, della deportazione,
della rivolta, della sconfitta, ciò che più affascina delle implicazioni politiche
in letteratura, fuori dalle pastoie della distorsione propagandistica, rimane l’esplorazione
dell’animo umano di fronte al disordine del mondo.
Nel presente numero di Mosaico, gli interventi proposti si concentrano sull’analisi
di queste tematiche, osservandone le differenti articolazioni a seconda delle poetiche
e delle prospettive culturali degli autori presi in esame. L’articolo di Sandro
De Nobile si focalizza su L’orologio di Carlo Levi, lucida e commossa testimonianza
di una precisa fase della politica italiana, quella della caduta del governo Parri, che
per lo scrittore torinese coincide con la disillusione e il tradimento delle promesse
sorte dalla Resistenza. Sulla narrativa elegiaca e memoriale di Giorgio Bassani si
dedica invece Sonia Trovato, con un intervento incentrato sulla silloge Il romanzo di
Ferrara, desolante spaccato storico-biografico di una generazione e di un mondo,
provinciale e borghese, destinato a scontrarsi con la cruda realtà del fascismo e la
tragedia delle persecuzioni razziali. E sulla scia di un lirismo più filosofico, cupo e
angosciante nella sua gelida razionalità, può essere inserita la figura “postuma”
di Guido Morselli, il quale nel romanzo Il comunista si serve dello scenario politico
per indagare la crisi di una coscienza umana sul piano esistenziale. Nel solco di una
letteratura ribelle, contestataria, di rottura, tipica degli anni ’60 e ’70, si inserisce il
saggio di Beniamino Della Gala che analizza il topos della rivolta nelle opere di Bianciardi,
Cesarano e De Andrè, ragionando sulla complessa dialettica tra individuo e
collettività.
Assumendo una prospettiva d’indagine più ampia, non legata alle opere di singoli
autori, i due articoli conclusivi si soffermano sui rapporti che intercorrono tra
politica e riviste letterarie. Se con il contributo di Daniel Raffini ci avviciniamo alla
vexata quaestio delle contraddittorie relazioni tra il regime fascista e i fogli culturali
di quegli anni, con l’editoriale di apertura della rivista «Zona letteraria» firmato da
Riccardo Burgazzi, qui gentilmente riproposto, ci si interroga sul ruolo che ancora
oggi può essere giocato dalla letteratura n el panorama contemporaneo.
Ringraziando gli editori per avermi dato l’opportunità di curare questo numero
di «Mosaico», auguro a tutti una buona lettura.
Stefano Tieri
INDICE
L’Orologio di Carlo Levi: qualunquismo? Populismo? Meridionalismo?
Sandro De Nobile
Barriere, segregazioni e zone grigie nel Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani
Sonia Trovato
Il comunista di Guido Morselli
Stefano Tieri
«Vengo anch’io. No, tu no». La tensione tra singolo e collettività in rivolta in alcune
rappresentazioni del Sessantotto italiano: Bianciardi, Cesarano, De Andrè
Beniamino Della Gala
Riviste e politica negli anni Venti
Daniel Raffini
Ciò che possiamo fare
Riccardo Burgazzi
Recensione
Verga innovatore
Maurizio Rebaudengo
Rubrica
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Marzo 2019
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All’insegna dell’amicizia, il presente numero di «Mosaico italiano» raccoglie
contributi e testimonianze scritti e offerti ad Emerico Giachery da colleghi, studiosi,
amici e allievi. L’occasione è data dalla ricorrenza del suo novantesimo
compleanno che cade l’8 febbraio, giorno in cui, destino vuole, era nato anche
l’amatissimo poeta Giuseppe Ungaretti.
Nella sua lunga carriera di docente universitario, di saggista e scrittore,
Giachery ha avuto non solo l’opportunità di insegnare in vari atenei italiani
(Cagliari, Macerata, Genova, L’Aquila, Roma “Tor Vergata”) e all’estero (Berna,
Nancy, Ginevra), ma anche di lavorare su numerosi autori della tradizione
letteraria italiana. Dante, Belli, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale,
Pierro e i dialettali costituiscono, infatti, i punti di riferimento centrali della
sua attività assieme a problemi di metodo critico. E sono proprio gli autori cui
ha dedicato una lunga fedeltà critica, tornando spesso a faticare, o a “godere”
come direbbe Leo Spitzer, sulle loro carte.
Il lungo cammino ha evidenziato un’attività ermeneutica che si fonda, per
dirla in breve, sul fecondo incontro con il testo letterario, visto come uno spazio
multiforme di segni e di sensi, con il quale lo studioso entra in “sintonia”
servendosi, di volta in volta, degli strumenti e dei metodi che sono più consoni
alla sua interpretazione, siano essi filologici, stilistici, tematici o simbolici. In
aggiunta si può ricordare la centralità vitale accordata da Giachery a pratiche
di contatto volte a produrre una conoscenza di più ampio respiro di testi ed
autori: il “sopralluogo letterario”, quasi una verifica sul campo di atmosfere, di
contenuti testuali o di dati biografici; la lettura “ad alta voce”, così frequentemente
praticata anche nelle aule universitarie, in direzione dell’esistenza stessa
del testo, specie poetico, e di una sua possibile maggiore comprensione.
Questo editoriale, però, rischia di diventare un piccolo “biglietto da visita”,
di cui Giachery non ha bisogno. Per giunta, non è per riconoscibilità sua, ma
per riconoscenza nostra che ci siamo messi all’opera. Finisco, allora, augurando
a tutti buona lettura, ringraziando quanti hanno generosamente partecipato
e salutando il Maestro con questa frase di Philip Roth: «Per me non c’è
nient’altro nella vita che valga un’ora di lezione».
Roberto Mosena
I direttori di Mosaico si associano alla dedica per Emerico (e Noemi) Giachery,
con gratitudine, anche per i suoi contributi per la rivista e l’attenzione
verso gli allievi.
Buona lettura
INDICE
ELIO PECORA : per EMERICO nel suo novantesimo compleanno
Per un’ipotesi di lettura. La Commedia dantesca come Bibbia rinnovata
Raffaele Giglio
«La forza di Ungaretti è la /r/». Dizione poetica e microradiografia della voce, con Mario Luzi,
Francesco Nobili Benedetti, Pier Francesco Listri e Emerico Giachery
Roberto Mosena
Lo scrittore–interprete Emerico Giachery
Carmine Chiodo
Un’immagine di Ungaretti: la foglia
Giulio Di Fonzo
Una reciproca lunga fedeltà Per Emerico Giachery e Noemi Paolini Giachery
Marco Camerini
Per Emerico. A voce alta
Fabio Pierangeli
Umanesimo ed humanitas in Emerico Giachery ai Martedi letterari di Salerno.
Giovanna Scarsi
Rubrica
Amore
Francesco Alberoni
PASSATEMPO
Febbraio 2019
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Wilson Rodrigues
un barocco baiano italofono
Manuel Botelho de Oliveira è un nome poco noto in Italia. Eppure, è stato il primo
brasiliano a dare alle stampe testi letterari in lingua italiana. Siamo nel 1705 e a Lisbona
esce Música do Parnasso, raccolta di testi lirici in varie lingue, tra cui l’italiano, di gusto
marcatamente secentista. Botelho de Oliveira ha sessantanove anni, vive - da ricco
possidente e da membro della classe dirigente - in posizione di estremo conforto e
benessere. Si occupa di letteratura, scrivendo, leggendo.
L’Italia è una presenza importante nella Salvador del secondo Seicento. La
cattedrale di Salvador si arricchisce, nella sacrestia, di altari dai marmi provenienti
dall’Italia, mentre i dipinti che decorano i mobili della sacrestia giungono direttamente
da Roma, forse - è una delle attribuzioni più probabili - dalla scuola di Maratta. Di più:
Padre Antonio Vieira nel 1681 è di ritorno a Salvador, dopo avere speso oltre cinque
anni della propria vita - la prima metà degli anni settanta - a Roma.
Non deve sorprendere, insomma, che uno scrittore baiano, come Manuel
Botelho de Oliveira, guardi all’Italia. Gli anni della formazione universitaria quest’ultimo
li ha passati proprio nel Continente europeo, a Coimbra. Conosce il castigliano, ma
l’identità iberica, imperiale e coloniale, gli sta stretta. A Gongora e Lope de Vega l’autore
di Música do Parnasso sovrappone Marino, che da autore ovidiano, opera in termini
di deterritorializzazione: la funzione Marino è metamorfica, trasforma il discorso
letterario colonial-iberico in un discorso cosmopolita, aperto, senza confini nazionali.
È la svolta verso la vertente che sarà chiamata decenni più tardi, nel vocabolario
critico-letterario, il “barocco”. Roma e l’Italia rappresentano nell’immaginario baiano
del Sei e Settecento il centro di un potere politico e culturale sconfinato, universale,
un “non-luogo” non della post-modernità, ma della modernità.
Questo numero di Mosaico intende far conoscere il poeta baiano, nella sua
relazione viva con l’Italia, a un pubblico di non addetti ai lavori. Si comincia con
una scelta di due testi italiani di Botelho di Oliveira e di due traduzioni in italiano di
altrettanti componimenti in portoghese dell’autore di Música do Parnasso. A firmare le
traduzioni e le note a piè di pagina sono José Juliano Moreira Santos, Josenir Alcântara
de Oliveira, Roberto Arruda de Oliveira e Carlos Alberto de Souza, laureando della UFC
e borsista Pibic il primo, professori della UFC gli altri tre.
È poi la volta di Enrique Rodrigues-Moura, docente all’Università di
Bamberg, in Germania, intervistato sul Manuel Botelho de Oliveira poliglotta e su
altre questioni critiche e biografiche. Erimar Wanderson da Cunha Cruz, dottorando
del programma PPGLetras/UFC, farà luce sulla donna cantata in Musica do Parnasso,
Anarda, ricostruendone la genesi letteraria, mentre Marcio Henrique Vieira Amaro,
anch’egli dottorando del programma PPGLetras/UFC, analizzerà uno dei poemi del
ciclo di Anarda, collocando in rilievo la convergenza culturale tra il discorso letterario
di Botelho de Oliveira e l’antichità classica.
A proposito dei madrigali in italiano di Música do Parnasso, la traduzione
ad opera di Yuri Brunello, professore del programma PPGLetras/UFC, di un brano
di Francesco Guardiani su Marino, docente alla University of Toronto e studioso
dell’autore dell’Adone metterà in chiaro alcune caratteristiche della forma madrigale
barocca. Sui madrigali in italiano di Botelho de Oliveira si concentra, invece, lo scritto
di Daniella Paez Coelho , dottoranda del programma di Letras alla UFSM. Chiude il
numero una recensione di José Juliano Moreira dos Santos a A “maravilha” na poesia
di Manuel Botelho de Oliveira di Adma Muhana, professoressa dell’Universidade de São
Paulo e affermata studiosa di Botelho de Oliveira.
Il presente lavoro è uno dei risultati delle attività svolte nell’ambito del
progetto di ricerca Manuel Botelho de Oliveira e a nova Grecia, finanziato dal Cnpq
attraverso la Chamada Universal MCTI/CNPq nº1/2016.
Buona lettura!
Yuri Brunello ed Erimar Wanderson da Cunha Cruz
INDICE
Poesie di Manuel Botelho de Oliveira: traduzioni e commenti da Musica di Parnasso
José Juliano Moreira dos Santos, Josenir Alcântara de Oliveira, Roberto Arruda de Oliveira
e Carlos Alberto de Souza
Manuel Botelho de Oliveira, poeta brasiliano tra due continenti e quattro lingue:
intervista a Enrique Rodrigues-Moura
Erimar Wanderson da Cunha Cruz e Yuri Brunello
Il mistero acuto di Anarda
Erimar Wanderson da Cunha Cruz
La poesia como appropriazione degli stili in Manuel Botelho de Oliveira e il dialogo
con la storia dell’arte
Marcio Henrique Vieira Amaro
Da The sense of Marino
Francesco Guardiani
I madrigali italiani del Parnaso musicale di Botelho de Oliveira
Daniella Paez Coelho
Recensione
A “maravilha” na poesia di Manuel Botelho de Oliveira di Adma Muhana
José Juliano Moreira Santos
Rubrica
Delusione d’amore
Francesco Alberoni
PASSATEMPO
Gennaio 2019
Editora Comunità
Rio de Janeiro - Brasil
www.comunitaitaliana.com
[email protected]
Direttore responsabile
Pietro Petraglia
Editori
Andrea Santurbano
Fabio Pierangeli
Patricia Peterle
Revisore
Elena Santi
Grafico
Wilson Rodrigues
della poesia
«È la gioia eccessiva concessa dalla sirena ai beati abitatori dei suoi agosti
inesauribili.
Nella conclusione della sua Vita di Henry Brulard Stendhal dice: «A
cosa attenermi? Come descrivere la felicità pazzesca? Il lettore è mai stato innamorato
pazzo? Ha mai avuto la fortuna di passare una notte con l’amante
che egli ha amato soprattutto in vita sua?... Davvero non posso continuare;
l’argomento supera chi deve parlare... Forse converrebbe saltare a piè pari
questi sei mesi. Come rintracciare la felicità eccessiva che ogni cosa mi dava?
È impossibile per me».
È la paura della felicità, il no che viene detto alla sirena.
Non a caso, prima di scrivere Il gattopardo e Lighea, Giuseppe Tomasi di
Lampedusa si era abbeverato a quelle pagine.
Intravista da don Fabrizio negli spazi stellari alla fine del capitolo sul ballo
l’immagine materna della stella Venere, la Venere «sempre fedele» che un
giorno finalmente si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero
«nella propria regione di perenne certezza», l’immagine materna della «creatura
bramata da sempre» che si fa incontro al moribondo sotto le spoglie della
giovane donna intravista poco prima alla stazione di Catania, ritorna nella
immagine della Sirena che Platone fa rivivere nelle stelle e che, come la stella
Sirio da cui prende il nome, è la personificazione dei torridi giorni canicolari in
cui il sole percorre il segno zodiacale del leone, la divina abitatrice degli «Agosti
inesauribili», di quelle giornate sospese fuori del tempo in cui gli dei talvolta
soggiornano ancora in Sicilia e in cui appunto viene a compiersi il prodigio
narrato in Lighea.
Parlando della visione di don Fabrizio sul letto di morte la moglie dello scrittore
ha giustamente richiamato una poesia di Fet dove la morte, figlia della
muta Notte e sorella del Sogno, è rappresentata come una giovane donna,
una dea della mitologia greca: «Ma l’illuminata figlia del radioso Febo, piena/
del respiro della silente Notte, l’impassibile Morte,/ incoronando la fronte di
un’immobile stella,/ non conosce né il padre né l’inconsolabile madre».
Nella sospensione delle giornate di mezza estate che sembrano non aver
mai fine, la luce, che irradiandosi uguale dall’alto del tempio del fanciullo
divino si diffonde su Terracina, risveglia in me l’ebbrezza dei giorni di agosto
in cui nel racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si compie l’incontro
con la Sirena, la sensazione di una gioia eccessiva che è la «Grazia pagana»
concessa da quella «Madre saggissima» al divino fanciullo che è stato abitatore
dei suoi «Agosti inesauribili» vivendo in quella condizione di acronicità
che è simile alla inabitazione fetale» (Sabino Caronia, da In campo lungo,
romanzo in uscita nel 2019).
INDICE
Tomasi di Lampedusa: l’ultimo canto della Sirena
Claudia Carella
CREDERE ALLE SIRENE. IL CLASSICISMO IN CALVINO E TOMASI DI LAMPEDUSA
Sabino Caronia
Il dizionario della solitudine nelle lettere di Madame de Sévigné
Ciro Ranisi
Giuseppe Montesano
“Chiedere tutto alla poesia”. Riflessioni attorno al volume curato da Edoardo Sant’Elia
Fuoco. Terra. Aria. Acqua.
La Scapigliatura salernitana: dal cenacolo d’arte di via Tasso n. 59 ai Martedì Letterari
Oriana Bellissimo
Scaffale
A cura della redazione di Mosaico
Rubrica
Bullismo
Francesco Alberoni
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Resta in ogni caso ancora molto da indagare, come è emerso dalle considerazioni fatte durante l’ultimo convegno dedicato interamente a Wilcock tenutosi all’Università di Chieti-Pescara nello scorso mese di dicembre. Vorremmo in questa sede fare alcune brevi e non esaustive osservazioni su una serie di testi finora poco frequentati, forse perché si tratta di articoli e brani che Juan Rodolfo Wilcock pubblicò sotto pseudonimo. Ci soffermeremo quindi sull’alter ego wilcockiano più celebre: quello di Matteo Campanari. Sappiamo infatti che Campanari è un eteronimo di Wilcock perché egli stesso lo dichiara in una delle lettere inviate a Bianca Borletti e parte di un carteggio studiato da Anna Longoni alcuni anni fa.
Non è una semplice questione di norma linguistica, né per l’uno né per l’altro; la ragione del contendere è, in realtà, il modo di concepire lo spazio di un’identità. Allo Spagnolo non è certo ignota la cifra della realtà che affronta: non solo Castro conosce a tavolino i fatti linguistici rioplatensi ed “americani” in genere, ma gli è ben nota anche la reale misura cui questi rispondono, ed è notizia non solo scientifica, ma anche latamente biografica: Castro nasce a Cantagalo, nella fazenda di famiglia, nello Stato di Rio de Janeiro, dove vivrà i prime cinque anni della sua vita.
La scienza storica ci lascia nell’incertezza circa gli individui. Non rivela che i punti in base ai quali essi erano associati alle azioni generali. Ci dice che Napoleone era sofferente il giorno di Waterloo, che occorre attribuire l’eccesso di attività intellettuale di Newton alla continenza assoluta del suo temperamento, che Alessandro era ubriaco quando uccise Clito e che la fistola di Luigi XIV ha potuto essere la causa di certe sue risoluzioni. […] Tutti questi fatti individuali hanno valore solo perché hanno modificato gli avvenimenti o avrebbero potuto deviarne la serie. Sono delle cause reali o possibili. [...] L’arte è contraria alle idee universali, descrive solamente l’individuale, desidera solo l’unico. Non classifica; declassifica. […].
Ed è da questo sentimento dell’individuale, rintracciabile nelle crepe della storia o della cronaca, che comincia a delinearsi, sin dagli anni sessanta, l’opera narrativa di Juan Rodolfo Wilcock, dal momento che proprio nelle notizie di cronaca possono annidarsi, ben al di là delle apparenze, paradossi e illogicità, che rivelano la “mostruosa” contingenza del quotidiano. Roland Barthes, non a caso, fa del fait divers un genere narrativo.
Todas las novelas son fantásticas, aun cuando quieren describir la realidad: porque en nuestra realidad actual trabajaron activa y antiguamente Proust, Dickens, Defoe, o Thomas Browne. No hace falta servir a una realidad inventada hace tiempo; importa ser consecuente con las derivaciones lógicas de nuestras suposiciones, ser un respetuoso de los principios fundamentales, del orden y de la silogística. Con ellos vivimos en nuestras cultura; cualquier representación de otra cultura (una melodía egipcia, o un libro de medicina hindú) se nos vuelve fantástica como un cuento oriental, porque sus leyes son inusitadas. Pero si modificamos alguna circunstancia del mundo que nos rodea, y aplicamos al sistema restante nuestros principios naturales, obtenemos un nuevo universo homogéneo y comprensible, cuyo enriquecimiento nos pertenece.
Così, per ottenere un nuovo, (dis)omogeneo universo bisogna applicare delle nostre logiche personali alla realtà, tenendo a mente che essa è stata già modificata dagli autori elencati (con un occhio di riguardo a Defoe, in questa sede). Questi ultimi legano la propria fama soprattutto alla forma romanzo per la cui atomizzazione e riduzione a pulviscolo narrativo il Nostro si prodigherà non poco, sulla scia di Manganelli, stimato da Wilcock.
Molto più dell’intreccio, molto più della caratterizzazione psicologica dei personaggi. Questi ultimi infatti spesso sembrano mostrarsi come strozzati soggetti bidimensionali, i cui scambi dialettici sono resi maggiormente comunicativi dal “non detto”e dai silenzi, piuttosto che dal verbalmente espresso.