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Chi l'ha detto?/Parte prima/24

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§ 24. Errore, fallacia dei disegni, insufficienza dei propositi

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§ 24. Errore, fallacia dei disegni, insufficienza dei propositi
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§ 24.



Errore, fallacia dei disegni
insufficienza dei propositi





L’errore è cosa affatto umana, come dice un trito adagio latino (errare humanum est), ed è segno di grande vanità il credere di sottrarvisi e di essere infallibile. Un proverbio toscano dice che anche il prete sbaglia all’altare, e Orazio ammonisce che:

417.   Quandoque bonus dormitat Homerus.1

(Arte poetica, v. 359).

Nonostante tutto questo, il mondo è meno indulgente per gli errori che per le colpe, ciò che spiega il modo di dire:

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418.   C’est plus qu’un crime, c’est une faute.2

dovuto a Fouché, Ministro di Polizia sotto il Primo Impero, che lo disse a proposito della esecuzione del Duca d’Enghien, fucilato nella notte dal 20 al 21 marzo 1804. Egli stesso ne rivendicò la paternità nelle sue Memorie: «Je ne fus pas celui qui osa s’exprimer avec le moins de ménagement sur cet attentat contre le droit des nations et de l’humanité. C’est plus qu’un crime, dis-je, c’est une faute! paroles que je rapporte parce qu’elles ont été répétées et attribuées à d’autres.»

A questa frase si può avvicinare la seguente, che ha essa pure origine nella moderna storia politica di Francia:

419.   Il n’y a plus une seule faute à commettre.3

dette da Thiers nella seduta del Corpo Legislativo del 14 marzo 1867, svolgendo una interpellanza «sur les affaires extérieures de la France, spécialement en ce qui concerne l’Allemagne et l’Italie». Il suo discorso concludeva così: «En finissant, messieurs, je vous en supplie, pour vous et pour le pays, rattachez-vous complètement à cette politique que j’appelle la politique du bon sens, car, je vous le déclare, il n’y a plus une seule faute à commettre» (Moniteur Universel, 15 mars 1867, pag. 295, col. 4).

L’errore nasce molte volte dalla insufficienza dei propositi. Facile è il nutrire delle buone intenzioni, ma

420.   Hell is paved with good intentions.4

Questa frase è ricordata da Boswell nella vita ch’egli scrisse di Samuele Johnson, al cap. IX, come detta da lui in età senile; d’altra parte Walter Scott nel romanzo The Bride of Lammermoor (to. I, chap. 7) la cita come un detto di un teologo inglese, che non nomina, alludendo probabilmente a Georges Herbert, il quale negli Jacula prudentum (ediz. del 1651, pag. 11) la dà in questa forma:

Hell is full of good meanings and wishings.

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Sembra però che si tratti di sentenza ben più antica perchè già S. Francesco di Sales nelle Lettere spirituali dice: «Non vi turbate per il detto di S. Bernardo che l’inferno è pieno di buone intenzioni e proponimenti».

Non v’ha cosa che più nuoccia al successo, dell’incertezza dei propositi, quella incertezza che bene può essere significata col famoso motto:

421.   Forse che sì forse che no.

il bizzarro titolo di un romanzo di Gabriele D’Annunzio pubblicato nel 1910 ma che ha origini molto antiche. È noto che il D’Annunzio lo trasse dal motto che figura ripetuto nei meandri di un laberinto fregiante il soffitto d’una delle sale del palazzo Gonzaga a Mantova e fu detto alludesse alle difficili condizioni in cui ebbe a trovarsi Vincenzo Gonzaga al tempo delle guerre contro i Turchi. Ma esso risulta inciso anche sopra la pietra angolare di una vecchia casa a Piacenza, pare sino dal principio del XVII secolo. Il proprietario della casa adottò il motto mentr’era in attesa d’un responso dei magistrati che tagliasse corto alle difficoltà opposte dalle vicine monache di S. Spirito, a che egli costruisse in quel punto un balcone. L’Illustrazione Italiana, nel n. 40, del 3 ottobre 1909, a pag. 330, dà le riproduzioni fotografiche tanto del soffitto di Mantova quanto della pietra di Piacenza. Ma è ovvio che il motto non fu inventato nè per l’uno nè per l’altra. Bisogna risalire a una frottola musicata da quel Marchetto Cara, cantore dei Gonzaga fin dal 1495, i cui canti — come dice il Davari — «s’erano resi tanto popolari a Mantova che alcune volte, prima ancora che fossero intesi alla Corte, si udivano cantare per le pubbliche vie dal popolo» (Rivista Storica Mantovana, 1885); essa comincia appunto:

Forsi che sì forsi che no
El tacer nocer non po.
Forsi che sì, non fia el mondo ognor cossì.
Forsi che sì forsi che no ecc.

ed è nel Libro Quarto delle Frottole pubblicato a Venezia da Ottaviano Petrucci nel 1504. Additò questa fonte e raccolse queste notizie Eugenia Levi nella [p. 124 modifica]Lirica italiana nel Cinquecento e nel Seicento fino all’Arcadia (Firenze, 1909; ved. a pag. XLIV, 123, 408), la quale pubblica anche (a pag. 123) un’altra canzonetta, anteriore al 1612 e intitolata La Mamma Cantatrice. Alla Modonesa, che finisce:

Forse che sie forse che noie
L’Agnesa sa ben tutt’i fatti suoie.

Più tardi V. Errante, studiando nell’Archivio Storico Lombardo, 1915, vol. XLII, disp. Iª, pag. 15-114, la tradizione dell’origine di questo motto nelle vicende della terza spedizione del duca Vincenzo Gonzaga alla guerra di Ungheria contro i Turchi (1601), la dimostrò insussistente, non essendo vera la presunta prigionia del duca in un laberinto costruito dai Turchi dopo la disfatta del 1601: e ritiene invece attendibile la fonte additata dalla Levi. Quanto al laberinto del soffitto mantovano, uno storico del tempo afferma ch’esso riproduceva il laberinto disegnato dal Gabriele Bertazzoli nei giardini del duca: e il duca volle ch’esso fosse il corpo della impresa da lui assunta e che ebbe per anima il motto Forse che sì ecc.

Ma nello stesso fasc. dell’A. S. L., a pag. 238, Francesco Novati non crede esatta l’asserzione della Levi e dell’Errante che le origini del motto siano da cercarsi nelle frottole del Cara: poichè il motto medesimo si trova già in una serie di Proverbi toscani del sec. XIV pubblicati da esso Novati nel Giorn. Stor. della Lett. Ital., vol. XVIII, 1891, pag. 115 sopra un codice dell’Universitaria di Bologna. In questa interessantissima fra le più antiche sillogi proverbiali italiane, il motto si presenta in questa forma:

Forse ke sì:
Forse ke no:
Forse ke ti sa tu.

Si tratta dunque, non del primo verso di una canzone popolare diventata famosa, ma di un proverbio che correva sulle bocche di tutti sin dal sec. XIV.

Inoltre anche le buone intenzioni conviene usarle a tempo, e se tardi ti risolvi, non sempre la fortuna ti mostrerà il medesimo viso. Ricordati della favola I due susini di Luigi Fiacchi, detto il Clasio, e della sua morale:

422.   Potea, non volle, or che vorrìa, non puote.

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Però il buon volere non sempre basta, anche usato al momento propizio, perchè ad un buon esito possono contrastare ragioni superiori alle forze individuali: sappiamo già da Dante che

423.   Contra miglior voler voler mal pugna.

e da un devoto libro che

424.   Homo proponit, sed Deus disponit.5

imitando una sentenza di Publilio Siro:

425.   Homo semper aliud, fortuna aliud cogitat.6

(Mimi, n. 216, ed. Wölfflin et Ribbeck; n. H. 14, ed. Meyer).

o meglio un versetto della Bibbia: Cor hominis disponit viam suam: sed Domini est dirigere gressus eius (Proverbi, cap. XVI, v. 9). Un proverbio toscano dice che una ne pensa la lepre, e una il cane: e Fénélon dette nuova forma al pensiero dell’autore dell’Imitazione, scrivendo nel 1685 nel suo Sermon pour la fête de l’Epiphanie, sur la vocation des Gentils (1er point, 7e alinéa), a proposito della scoperta dell’America: «Ainsi l’homme s’agite, mais Dieu le mène».

Allora, a chi toccò vedere così delusi i propri disegni, potrà dire con Plauto:

426.   Oleum et operam perdidi.7

(Pœnulus, a. I, sc. 2, v. 119).

Di ogni impresa sarà quindi savio partito di attendere a giudicarla quando sia giunta a fine, ovvero:

427.   En toute chose il faut considérer la fin.8

(La Fontaine, Fables, lib. III, fab. 5, ult. verso: Le Renard et le Bouc).
[p. 126 modifica]che è traduzione del classico Respice finem. Molte volte chi si è accinto ad ardua fatica, superate facilmente le prime ovvie difficoltà, si trovò impotente di fronte alle seconde più gravi:

428.            Facilis descensus Averni.9

che è tolto da un pensiero del filosofo Bione riportato da Diogene Laerzio (lib. IV, cap. 7, n. 3, § 49). Il difficile è di ritornare! Attenti perciò a non largheggiare di vanti e di promesse, a non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, perchè non si abbia a ripetere il satirico verso:

429.   Parturiunt montes, nascetur ridiculus mus.10

(Orazio, Arte poetica, v. 139).

allusivo alla favola di Esopo, La montagna che partorisce, imitata anche da Fedro (lib. IV, fav. 22).

  1. 417.   Qualche volta sonnecchia anche il buon Omero.
  2. 418.   È più che un delitto, è un errore.
  3. 419.   Non manca più un solo errore da commettere.
  4. 420.   L’inferno è lastricato di buone intenzioni.
  5. 424.   L’uomo propone ma Dio dispone.
  6. 425.   Sempre l’uomo ne pensa una, la fortuna un’altra.
  7. 426.   Ho perduto l’olio e la fatica.
  8. 427.   In ogni cosa bisogna guardare alla fine.
  9. 428.   Facile è la discesa all’Inferno.
  10. 429.   Partoriscono i monti, e nascerà un ridicolo topo.