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Taiye Selasi

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Taiye Selasi (2013)

Taiye Selasi (1979 – vivente), scrittrice e fotografa britannica di origine ghanese e nigeriana.

Citazioni di Taiye Selasi

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Citazioni in ordine temporale.

  • [...] finché esisterà il concetto di razza ci sarà il razzismo.[1]
  • Francis Scott Fitzgerald diceva che la bellezza della letteratura sta nel trovare se stessi in un libro. Io lettore dimentico la lingua originale, il paese e sono lì con i personaggi, io divento quei personaggi.[2]
  • [«Come è stato scrivere il tuo primo romanzo?»] Sapevo di voler essere scrittrice all'età di 4 anni, e per i successivi 25 non c'è stato giorno in cui non abbia pensato al "primo libro" che prima o poi avrei scritto. Alla soglia dei 30 anni e dopo due lauree, vari lavori, viaggi, e ancora niente libro, ho lasciato il lavoro — mettevo da parte da anni — e mi sono lanciata. È stato magico, mi svegliavo la mattina per fare quello che avevo voluto fare tutta la vita e ora facevo. Quando dopo le prime 100 pagine ho trovato un agente e firmato il contratto sono stata afflitta dal blocco dello scrittore, per l'improvvisa realizzazione che qualcun altro avrebbe letto il mio libro! Ci ho messo quasi sei mesi per riprendere e quando l'ho fatto, ho scritto le successive 200 pagine con lo stesso slancio delle prime 100, solo sei mesi più tardi.[3]
  • [«[...] c'è un'aspettativa che la letteratura Africana debba affrontare le stesse questioni sociali e politiche di cui impariamo dai media?»] Sì, completamente. C'è il rischio, con lavori legati al continente africano, che la geografia diventi il romanzo stesso. La critica si concentra sull'ambientazione e le permette di oscurare storia, struttura, tecnica, tono, eccetera, ed è un peccato. Ci sono romanzi che parlano di determinati temi, la guerra, l'immigrazione — prendi i romanzi di Chimamanda Ngozi Adichie per esempio, ma questo non vuol dire che ogni lavoro debba parlarne. Siamo scrittori e possiamo parlare di cose diverse. Il nostro parco giochi non dovrebbe essere più piccolo perché siamo africani. Dovremmo poter andare sull'altalena, lo scivolo, la piscina, arrampicarci sulle sbarre, tutto quello che vogliamo fare dovremmo avere il permesso di farlo, africani o meno.[3]
  • Ogni volta che prendiamo in mano un libro, cancelliamo i nostri confini personali.[4]
  • Loro — cioè, noi — siamo afropolitani, la nuovissima generazione di emigranti africani, che stanno per arrivare o sono già stati presi da uno studio legale, un laboratorio chimico, un locale jazz, una banca di credito nei pressi di casa tua. Siamo afropolitan: non cittadini, ma africani del mondo.[5]
  • Tutte le parole che usiamo per penetrare nella giungla intricata dell'identità personale — "hipster", "internazionalista", "pan-africanista" — includono o escludono qualcosa. In realtà è solo un esercizio di demarcazione, di disaggregazione di una parte dal tutto. Più interessante è la questione economica. Quando si parla di middle class africana, le critiche sono inevitabili. Non si sa cosa sia peggio: le madornali ingiustizie economiche? l'insidiosa influenza dell'Occidente? i processi ostici per aver i visti? l'insufficiente mobilitazione politica? C'è di tutto. Lo vedo. È sotto i miei occhi. E ho molte cose da dire a questo proposito. Datemi il tempo. E in ogni caso il fatto che il termine afropolitan sia stato via via frainteso non mi interessa più di tanto. Come scrittori siamo obbligati a far uscire le nostre parole, lasciare che se la sfanghino da sole per il mondo. Io mi limito a descrivere quello che vedo. Il resto, i dibattiti, le etichette, la politica, le lascio ai professionisti.[5]
  • Non c'è niente di eterno nelle nazioni, niente di biologico nella nazionalità.[6]

Intervista di Gabriella Grasso, corrieredellemigrazioni.it, 20 novembre 2013.

  • Tra gli afroamericani la violenza domestica è spesso epidemica e deriva dall'eredità di violenza e oppressione della loro storia. Un lascito simile a quello della brutale colonizzazione britannica in Africa occidentale. Gli inglesi si sono insanguinati le mani: quel sangue è stato assorbito dai Paesi che hanno subìto il loro controllo e continua a scorrere sotto la superficie. Di tanto in tanto, emerge sotto forma di svalutazione di sé e violenza. Reazioni ereditate dal modo in cui si è stati trattati: che può diventare il modo di trattare se stessi e i propri figli.
  • Gli Usa del Presidente Obama sono anche quelli dell'omicidio di Trayvon Martin [il ragazzo afroamericano ucciso per la strada in Florida [...] ndr]. Se la domanda è: viene ancora praticato il razzismo senza che il sistema sociale e culturale del Paese se ne occupi? Allora la risposta è inequivocabilmente: sì. Lo vediamo tutti i giorni in un'America in cui nessun repubblicano prende parte alla commemorazione della marcia di Washington, un ragazzo disarmato viene ucciso vicino casa e il suo assassino resta a piede libero... Ci sono molte ragioni per cui non vivo più lì e questa è una. Non ho alcuna intenzione di allevare figli con la pelle scura in un Paese che continua a dire ai neri che devono giustificare la propria esistenza e che la loro vita vale meno di quella di altri. [...] È dura vivere in un Paese, o meglio in un contesto socio politico, nel quale la pelle nera è ancora considerata, non da tutti, ma dalla cultura egemone, un segnale di inferiorità. Faccio un esempio: un nero e un bianco entrano in una stanza e l'istantanea convinzione di tutti è che il bianco sia sicuramente più competente, intelligente, istruito. Chiunque pensi che negli Usa non funzioni così, non è molto attento.
  • Non voglio parlare a nome di tutte le afroamericane. Però è vero che durante l'adolescenza, quando tendi a volerti uniformare al gruppo, può essere doloroso scoprire che non rientri nei parametri della maggioranza. Ricordo che a scuola io e le mie compagne provavamo un forte desiderio di essere come le bianche. [...] A pensarci bene, è già da prima dell'adolescenza che si insinua nella testa delle bambine l'idea di essere inadeguate rispetto a certi parametri. Mi vengono in mente due episodi. Quando avevo circa sette anni a scuola ci chiesero di fare un esercizio. Dovevamo completare una frase che iniziava con "Vorrei...". Tipo: "Vorrei... essere una principessa", "Vorrei... poter volare". Da adulta ho ritrovato il quaderno su cui avevo fatto l'esercizio. C'era scritto: "Vorrei... essere bianca". Quando l'ho letto, mi sono messa a piangere. Mi ha fatto male pensare di aver scritto una frase così in totale innocenza e trasparenza, senza pensare ci fosse qualcosa di strano o di cui vergognarmi. Un altro episodio: poco tempo fa una signora tedesca mi ha raccontato di essersi trovata al parco con una bambina nera. La piccola, che stava disegnando una principessa, a un certo punto si è fermata e le ha chiesto: "Di che colore le faccio la pelle?". La signora l'ha incoraggiata: "Falla come te". La bimba ha reagito immediatamente: "Ma... è una principessa!". Io capisco benissimo cosa intendeva: le principesse (almeno quelle di Walt Disney) sono bionde con gli occhi azzurri. Io, come donna nera sono dovuta guarire da queste ferite. E se avrò una figlia dovrò assicurarmi che sappia sin da piccola che anche lei è una principessa. Come lo sono io.

Note

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  1. Dall'intervista L'afropolitan Taiye Selasi: "Ho pianto per le banane lanciate alla Kyenge", gazzettadimantova.gelocal.it, 6 settembre 2013.
  2. Dall'intervista di Francesco Erbani, Taiye Selasi"Siamo global: l'Africa è solo un mito", repubblica.it, 7 settembre 2013.
  3. a b Dall'intervista di R. Teresa O'Connell, Taiye Selasi, rivistastudio.com, 9 settembre 2013.
  4. Da La letteratura africana non esiste, Internazionale nº 1031, 20 dicembre 2013, p. 93.
  5. a b Citato in Valentina Pigmei, Generazione afropolitan, minimaetmoralia.it, 6 settembre 2014.
  6. Da La nazionalità da costruire, Internazionale nº 1088, 6 febbraio 2015, p. 92.

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