Storia della gladiatura
L'origine della figura del gladiatore è ricollegata all'istituzione del cosiddetto munus (al plurale munera, da cui il nome degli spettacoli), il dovere/obbligo dovuto dalle famiglie benestanti ai propri defunti, durante le quali uomini armati, alla presenza di un arbitro, si battevano per onorare il defunto.[1] Legati all'iniziativa dei privati e comunque destinati al popolo romano, i Munera erano in origine distinti dai Ludi, gli spettacoli sponsorizzati dallo Stato. L'origine dei munera è ancora oggetto di dibattito, seppur si tenda ad interpretarla come una pratica di culto degli antenati sviluppatasi nella Penisola presso una popolazione diversa dai Romani, una forma alternativa e meno cruenta al sacrificio umano[2] sviluppatasi o in Etruria[3][4][N 1] o in Campania[5] e poi mutuata dai Romani.
Si hanno notizie sistematiche dei munera nell'Urbe come parte dei riti funebri dei patrizi romani al tempo delle Guerre puniche (III secolo a.C.)[6][7] e da allora in poi divennero rapidamente un elemento essenziale della vita sociale e politica del mondo romano, allora in rapidissima espansione (v.si Suddivisioni e cronologia delle province romane). Già nella prima metà del II secolo a.C., gli scontri tra gladiatori erano ormai tanto comuni che potevano essere ignorati dalla registrazione ufficiale[8] e persero progressivamente l'originale connotazione cerimoniale-funeraria trasformandosi in spettacoli di massa offerti da facoltosi personaggi (lat. editores o munerarii) che principiarono a servirsene come strumento di propaganda politica per procurarsi consenso ed accrescere il proprio prestigio.[9][10][11] Il gladiatore divenne forse il più iconico esempio di quell'influente meccanismo di potere efficacemente descritto dalla nota locuzione del poeta Giovenale (50/60–127 d.C.) «panem et circenses».[12]
Parallelamente, la figura del gladiatore passò da quella del prigioniero di guerra condannato a morte tramite combattimento[13] al combattente professionista, spesso di origine servile ma non solo, forse già alla fine del III secolo a.C.[8] Questi combattenti professionisti necessitavano forzatamente di apposite scuole/caserme nelle quali essere debitamente addestrati che furono anch'esse chiamate ludi.[8] Le scuole gladiatorie, tanto quanto la nuova tipologia di edifici appositamente sviluppati per ospitare i munera, gli anfiteatri, di diffusero massicciamente, a Roma tanto quanto in Italia e poi nelle province, a partire dal I secolo a.C.[14]
Nel medesimo periodo, coincidente con il passaggio di Roma da Repubblica ad Impero, i munera erano ormai entrati de facto nel novero dei Ludi, oltre ad essere ormai un potente elemento di condizionamento della vita politica la cui organizzazione era funzionale al cursus honorum del loro editor.[15] Nel contesto di tensione politica e complotti di quegli anni, caratterizzati appunto da editores molto spregiudicati, valga su tutti l'esempio di Giulio Cesare,[16][17] non mancarono poi le leggi suntuarie con le quali il Senato di Roma tentò di addomesticare i munera.[15] Ciò avvenne però solo per opera di Augusto, al principio dell'Impero, che li distinse in ordinaria, previsti cioè in occasione di certe festività, o extraordinaria per celebrare particolari occasioni,[18] oltre a definire le categorie gladiatorie (lat. armaturae), stabilire le regole del combattimento, la disposizione dei posti a sedere nell'anfiteatro, ecc. I suoi successori, la dinastia giulio-claudia (27 a.C.–68 d.C.), furono del pari attivi promotori di spettacoli e, inevitabilmente, organizzatori e costruttori d'anfiteatri e scuole gladiatorie. Sotto la successiva dinastia flavia (69–96) i munera in Roma furono interessati da un'importante riassetto logistico che portò alla costruzione di un vero e proprio "polo" comprendente il Colosseo, il Ludus Magnus e molto altro.[19] Il gettito di denaro prodotto e consumato da questi spettacoli, tra organizzazione, scommesse, ecc., raggiunse, sotto i successivi Imperatori adottivi (96–180 d.C.), cifre tali da richiamare sistematicamente l'attenzione del fisco imperiale: ad esempio, l'imperatore Marco Aurelio (r. 161–180 d.C.) dovette limitare a 12.000 sesterzi lo stipendio di un gladiatore di grido.[20]
La tradizione dei munera corse parallelamente alla storia di Roma per circa sette secoli, raggiungendo l'apice tra il I secolo a.C. e il II secolo d.C. e principiando ad indebolirsi con la crisi del III secolo d.C. La definitiva affermazione del Cristianesimo a Roma nel corso del IV secolo d.C. contribuì al declino dei munera che si concretizzò comunque solo sotto la dinastia teodosiana (379–457 d.C.): l'imperatore Onorio (r. 395–423 d.C.) ne ordinò l'abolizione nel 404 d.C.[21] e Valentiniano III (r. 425–455 d.C.) li proibì definitivamente nel 438 d.C.[22] Le Venationes, spettacoli nei quali una specifica categoria di gladiatori, i bestiarii, combattevano contro le fiere (orsi, leoni, leopardi, ecc.), continuarono invece sino al VI secolo:[22] es. nella Cartagine dominata dai Vandali (429–534 d.C.), il poeta Luxorius compose all'inizio del secolo un epitaffio in onore del giovane bestiario Olimpio.[23][24] A questo punto, l'interesse per le sfide gladiatorie era scemato in tutto il mondo romano.
Premessa: la storia della gladiatura nelle fonti classiche
modificaIn età repubblicana e, soprattutto, imperiale, i gladiatori e gli spettacoli che li vedevano coinvolti, i munera (sing. munus), erano ormai così addentro al vivere quotidiano dell'antica Roma da averci lasciato testimonianza di sé tanto nei testi della legislazione romana pervenutici (come il celebre Digesto) quanto nei testi di moltissimi autori latini. Anzitutto gli scrittori, soprattutto poeti, cui dobbiamo i più vividi specchi delle abitudini, anche le più grezze e palpitanti, dell'Urbe, come Marziale (34/41–104 d.C.) e Giovenale (50/60–127 d.C.) ma anche quelli più seri come Cicerone (106–43 a.C.), Seneca (4 a.C.–65 d.C.), ecc. I gladiatori e, soprattutto, i munera, sono poi ampiamente descritti dai grandi storici dell'Impero, sia di lingua latina sia di lingua greca: Tito Livio (59 a.C.–17 d.C.), Tacito (55?–117/120 d.C.) e Cassio Dione (155–235 d.C.) per citarne alcuni.
Come verrà approfondito nel seguito, l'origine della gladiatura non è oggi ancora del tutto chiara, anche in ragione del fatto che le fonti latine stesse sono discordanti sul tema.[25][26] L'unico dato certo è che si trattò di un'usanza non romana mutuata da qualche altra popolazione stanziata nella Penisola italica. Alla fine del I secolo a.C., lo storico greco Nicola di Damasco († 14 a.C.)[27] sostenne l'origine etrusca dei giochi gladiatorii.[28] Una generazione dopo, Tito Livio scrisse invece che furono tenuti per la prima volta nel 310 a.C. dai Campani per celebrare la loro vittoria sui Sanniti.[5][29] Più di duecent'anni dopo, il letterato romano-cristiano Tertulliano (155–230 d.C.)[30] ribadì l'origine etrusca, avanzando le tesi, poi riprese in epoca medievale da Isidoro di Siviglia (560–636),[31] che l'etimo latino "lanista", il proprietario della scuola/caaserma nella quale i gladiatori si allenavano, derivasse dall'etimo di lingua etrusca per "carnefice" e che il titolo di "Caronte", assegnato alla maschera che trascinava i gladiatori morti fuori dall'arena, derivasse da Charun, lo psicopompo degli inferi etruschi.[32] Queste tesi furono accettate dai primi studiosi moderni di archeologia e storia romana e sono oggi promosse nella maggior parte delle principali monografie storiche dedicate ai gladiatori ed alla loro storia.[33]
Origini
modificaDibattito
modificaSecondo Tertulliano,[2] la gladiatura sviluppò come forma alternativa e meno cruenta al sacrificio umano offerto sulle tombe dei defunti e altrettanto sostenne Servio in un suo commento al passo «inferias quos immolet umbris» dell'Eneide di Virgilio:
«inferiae sunt sacra mortuorum, quod inferis solvuntur. sane mos erat in sepulchris virorum fortium captivos necari: quod postquam crudele visum est, placuit gladiatores ante sepulchra dimicare, qui a bustis bustuarii appellati sunt»
«[...] le inferiae sono i sacrifici per i defunti, offerti al regno dei morti. Senza dubbio era usanza uccidere i prigionieri di guerra davanti ai sepolcri degli uomini valorosi: da quando tale usanza parve crudele, sembrò opportuno far combattere, davanti ai sepolcri, i gladiatori chiamati bustuarii, dai busta»
Tale interpretazione non è condivisa da tutti gli studiosi[34] e si privilegia piuttosto il suo inserimento all’interno dei cerimoniali funebri, intesi come omaggio o obbligo (lat. munus, pl. munera) da assolvere nei confronti del mane (lett. "spirito" o "ombra") di un antenato morto da parte dei suoi discendenti. A Roma i funerali dei personaggi di rilievo rappresentavano l'occasione per le famiglie benestanti di ostentare la propria ricchezza. I primi combattimenti si svolsero pertanto attorno al bustum (lo spazio ov'era collocata la pira funeraria) per onorare la persona deceduta, e ad essi prese parte la prima tipologia di gladiatore romano noto, il bustuarius.
Premesso dunque che la gladiatura fu la diretta o indiretta derivazione d'una pratica legata al culto degli antenati praticato a Roma in età regia e poi repubblicana, il dato certo, pervenutoci come anticipato dagli autori romani stessi, è che fu un prestito culturale non-romano sulla cui effettiva origine prosegue oggi il dibattito, supportato da evidenze archeologiche:
- Sulle pareti di due tombe del VI secolo a.C. di Tarquinia, uno dei più antichi e importanti insediamenti della dodecapoli etrusca, rispettivamente la "Tomba degli Àuguri" (post 550 a.C.) e la "Tomba delle Olimpiadi" (post 525 a.C.), è raffigurato un gruppo composto da uno strano personaggio mascherato, denominato "Phersu", che tiene al laccio un feroce cane aizzato contro un uomo con la testa coperta da un sacco armato di clava per difendersi dall'animale. In questa cruenta scena di combattimento, oggi più facilmente interpretabile come antesignana della damnatio ad bestias romana che come uno scontro gladiatorio,[35] il latinista ed etruscologo Raymond Bloch (1914–1997) volle leggere un'anticipazione dei giochi gladiatori romani che deriverebbero quindi dai giochi funebri dell'Etruria, nel corso dei quali venivano offerti al defunto selvaggi combattimenti tra avversari che cercavano disperatamente ciascuno di salvare la propria vita.[3] Su urne e sarcofagi etruschi si ritrovano frequentemente rappresentazioni di combattimenti anche se l'interpretazione di tali scene non sempre porta a ritenere trattarsi effettivamente di gladiatori piuttosto che di scene mitologiche o di combattimenti tra guerrieri.
- Per alcuni studiosi moderni, la rivalutazione dell'evidenza pittorica supporta invece un'origine campana, o almeno un suo prestito, per i giochi e i gladiatori.[36][37] La Campania ospitò, non a caso, tanto i primi anfiteatri quanto le prime scuole di gladiatori conosciute.[8][38] Gli oltre trenta affreschi tombali del IV secolo a.C. della città campana di Paestum,[35] colonizzata dai romani non prima del 273 a.C., mostrano combattenti in coppia, con elmi, lance e scudi, alla presenza di un arbitro,[39] in un rito funebre propiziatorio di sangue che anticipa i primi giochi dei gladiatori romani.[8] Rispetto a queste immagini, le prove a sostegno delle pitture tombali etrusche risultano provvisorie e tardive. Gli affreschi di Paestum possono infatti rappresentare la continuazione di una tradizione molto più antica, acquisita o ereditata da coloni greci dell'VIII secolo a.C.[40]
Certezze
modificaDati storici ed archeologici sulla gladiatura si fanno più chiari e puntuali a partire dal III secolo a.C. Tito Livio colloca i primi giochi gladiatorii romani nel 264 a.C., nella fase iniziale della prima guerra punica, quando Decimo Giunio Bruto Sceva organizzò un munus in onore il padre defunto, Bruto Pera, facendo combattere fino alla morte tre coppie di gladiatori presso il mercato del bestiame di Roma, il Forum Boarium, presso l'estremità settentrionale del Circo Massimo.[6] Sappiamo poco di questi primi gladiatori: secondo supposizioni recenti, i combattenti, di cui è certo solo che trattavasi di prigionieri di guerra, avrebbe potuto avere un equipaggiamento simile a quello del gladiatore poi noto come "trace".[41] Lo sviluppo d'armamento e stile di combattimento dal bustuarius agli altamente specializzati gladiatori dell'epoca successiva fu fortemente influenzato dagli immediatamente successivi rivolgimenti politici, quando la popolazione italica dei Sanniti appoggiò il cartaginese Annibale Barca (247–183 a.C.) durante la Seconda guerra punica (218–202 a.C.). In ragione delle spedizioni punitive romane contro i Sanniti, il tipo più antico di gladiatore, più frequentemente menzionato e probabilmente più popolare, fu appunto il "sannita".[N 2]
«La guerra di Sannio, subito dopo, fu seguita con eguale pericolo ed egualmente gloriosa conclusione. Il nemico, oltre all'altra loro preparazione bellica, aveva fatto risplendere la loro linea di battaglia di nuove e splendide armi. C'erano due corpi: gli scudi dell'uno erano intarsiati d'oro, dell'altro d'argento [...] I romani avevano già sentito parlare di questi splendidi equipaggiamenti ma i loro generali avevano insegnato loro che un soldato dovrebbe essere rude a guardare, non ornato d'oro e d'argento ma riponendo la sua fiducia nel ferro e nel coraggio [...] Il dittatore, come decretato dal senato, celebrò un trionfo, in cui lo spettacolo di gran lunga più bello fu offerto dalla panoplia catturata. Così i Romani si servirono della splendida armatura dei loro nemici per onorare i loro dèi; mentre i Campani, per orgoglio e per odio dei Sanniti, equipaggiarono in tal modo i gladiatori che offrivano loro intrattenimento nelle loro feste, e diedero loro il nome di Sanniti.»
Il racconto di Livio elude la funzione funebre e sacrificale dei primi combattimenti dei gladiatori romani e riflette il successivo ethos teatrale dello spettacolo dei gladiatori romani: barbari splendidamente armati e corazzati, esotici, traditori e degenerati, sono dominati dal ferro e dal coraggio romano.[42] I suoi semplici romani dedicano virtuosamente il magnifico bottino di guerra agli dèi. I loro alleati campani organizzano una cena di intrattenimento con gladiatori che potrebbero non essere sanniti ma interpretano il ruolo sannitico. Altri gruppi e tribù si sarebbero uniti all'elenco dello spettacolo con l'espandersi dei territori romani, poiché la maggior parte dei gladiatori erano armati e corazzati alla maniera dei nemici di Roma, con la sola eccezione dei tipi velites e provocatores. Il munus gladiatorio divenne così una forma moralmente istruttiva di rappresentazione storica in cui l'unica opzione onorevole per il gladiatore, ormai metafora vivente del era combattere bene e/o morire bene.[43]
Sviluppo (III–II secolo a.C.)
modificaDopo i giochi funebri in onore di Bruto Pera del 264 a.C., si deve attendere il 216 a.C. per trovare la successiva menzione ufficiale di gladiatori nelle cronache romane, quando Marco Emilio Lepido, defunto console e augure, fu onorato dai suoi figli Marco, Lucio e Quinto con tre giorni di gladiatora munera nel Foro Romano utilizzanti ventidue coppie di combattenti[44] e non è da escludere che questi patrizi dell'importante Gens Aemilia disponessero forse già d'una loro scuola gladiatoria.[45] Dieci anni dopo, Scipione l'Africano (236–183 a.C.) diede un munus commemorativo a Carthago Nova (odierna Cartagena), in Iberia, per suo padre e suo zio, vittime delle guerre puniche, al quale parteciparono come combattenti volontari dei non-romani di alto rango e forse anche dei romani.[7] Il contesto delle guerre puniche e della disastrosa sconfitta di Roma nella battaglia di Canne (216 a.C.) collegano questi primi giochi alla munificenza, alla celebrazione della vittoria militare e all'espiazione religiosa del disastro militare. Questi munera sembrano finalizzati a sollevare il morale dell'Urbe in un'era di minaccia ed espansionismo militare.[46] Il successivo munus registrato, tenuto per il funerale di Publio Licinio nel 183 a.C. fu più stravagante: tre giorni di giochi funebri, 120 gladiatori coinvolti e distribuzione pubblica di carne (lat. visceratio data),[47] una pratica che richiamava i combattimenti dei gladiatori nei banchetti campani descritti da Livio e poi deplorati da Silio Italico (25–101 d.C.).[48]
Gli scontri gladiatori s'andavano ormai così intensificando da divenire parte della quotidianità romana, al punto che persino gli alleati di Roma emulavano tale pratica, come fu il caso di Antioco IV Epifane (r. 175–164 a.C.) che bandì una sfida tra gladiatori ove, per questioni economiche, ricorse a dei combattenti volontari e non a degli schiavi addestrati, o veniva onorati con dei munera, come fu il caso di Viriato (180–140 a.C.), un eroe lusitano per i cui pubblici funerali romani (140 a.C.) vennero fatte combattere 200 coppie di gladiatori.[8][49] Già nel 174 a.C., stando a Livio, i munera erano tanto diffusi che, se organizzati da un committente (lat. editor o munerarius) d'importanza sociale relativamente bassa, potevano essere ignorati dalla registrazione ufficiale:[8]
«In quell'anno si tennero molti giochi gladiatori, alcuni insignificanti, uno degno di nota al di là degli altri: quello di Tito Flaminino che fece per commemorare la morte del padre, che durò quattro giorni, e fu accompagnato da una distribuzione pubblica di carni, un banchetto e spettacoli scenici. Il culmine dello spettacolo che fu grande per l'epoca fu che in tre giorni si combatterono settantaquattro gladiatori.»
Nel 105 a.C., i consoli Gneo Mallio Massimo e Publio Rutilio Rufo offrirono a Roma il suo primo assaggio di "combattimento barbarico" sponsorizzato dallo stato ed affidato ai gladiatori di Capua, nell'ambito di un programma di addestramento per i legionari.[50] Il riscontro del pubblico fu talmente positivo[51][52] che, da lì innanzi, le sfide tra gladiatori, un tempo riservate ai soli munera privati, furono spesso incluse nei giochi di stato, i ludi, che accompagnavano le principali feste religiose. Ne originò un certo caos semantico: i giochi di stato, anche quelli includenti i gladiatori, vennero sempre chiamati ludi e le scuole stesse dei gladiatori furono chiamate ludi (sing. ludus). Laddove i ludi tradizionali erano stati dedicati a una divinità, come Giove, il munus poteva essere dedicato all'antenato divino o eroico di uno editor aristocratico.[53]
Apogeo (I secolo a.C.–II secolo d.C.)
modificaL'originale connotazione funerario-religiosa, comunque presente fino al termine dell'era repubblicana, scemò progressivamente in favore d'uno spettacolo sempre più popolare,[54] capace di catturare crescenti fasce di pubblico di tutte le classi sociali. Fu soprattutto il forte consenso popolare che ne ricava l'organizzatore dei giochi a giustificare lo sforzo economico sostenuto. I giochi gladiatorii offrivano al munerarius opportunità stravagantemente costose ma efficaci per l'autopromozione e offrivano ai suoi clientes e potenziali elettori un intrattenimento emozionante a costi minimi o nulli per loro stessi.[55][56] I gladiatori divennero un grande affare per allenatori e proprietari, per politici in ascesa e per coloro che avevano raggiunto la vetta e desideravano rimanervi. Un privatus ("privato cittadino") politicamente ambizioso avrebbe potuto rimandare il munus del padre defunto alla stagione elettorale, quando uno spettacolo generoso gli avrebbe permesso di raccogliere voti; coloro che erano al potere e coloro che lo cercavano avevano bisogno dell'appoggio dei plebei e dei loro tribuni, i cui voti potevano essere conquistati con la sola promessa di uno spettacolo eccezionalmente buono.[57][58] I gladiatori divennero così un potente elemento di condizionamento della vita politica[15] e la collocazione temporale del munus divenne funzionale all'evento politico dell'editor, svolgendosi anche a distanza di molti anni dalla morte del defunto al quale era dedicato: es. nel 65 a.C., il neoeletto edile Caio Giulio Cesare (101/100–44 a.C.) sponsorizzò dei giochi che giustificò come munus al padre morto da 20 anni.[16] Decenni prima, Lucio Cornelio Silla (138–78 a.C.), durante il suo mandato di pretore, mostrò il suo solito acume nell'infrangere le proprie leggi suntuarie per indire il più sontuoso munus mai visto a Roma durante il funerale di sua moglie Metella.[59] Cicerone (106–43 a.C.), ben compreso questo meccanismo, promosse la Lex Tullia de ambitu, approvata dal Senato romano nel 63 a.C., che impedì a un editor di candidarsi nei due anni successivi allo svolgimento del munus.[15]
Assecondando le richieste del mercato per quello che era ormai un fenomeno di massa, l'architettura romana aveva sviluppato in quegli anni una nuova tipologia di edificio di forma ellittica destinato ad ospitare i munera e, in generale, gli spettacoli pubblici (con l'eccezione delle corse di carri per i quali erano necessarie le specificità strutturali del circo): l'anfiteatro.[14][N 3] Il primo anfiteatro romano in muratura conosciuto fu costruito a Pompei da coloni di Silla intorno al 70 a.C.[60] cui seguirono Capua e Cuma.[N 4] Il primo nella città di Roma fu lo straordinario anfiteatro ligneo costruito nel 53 a.C. da Gaio Scribonio Curione.[61]
Contestualmente, divenne capillare anche la diffusione delle scuole/caserme destinate all'addestramento dei gladiatori. Il primo ludus gladiatorius citato dalle fonti è quello capuano di Caio Aurelio Scauro, il lanista dei gladiatori impiegati nel 105 a.C. da Massimo e Rufo.[62] Il poeta Orazio menzionò, intorno al 10 a.C., un ludus Aemilius, d'incerta collocazione,[63] probabilmente lo stesso di cui la Gens Aemilia s'era servita per organizzare i giochi del 216 a.C.[45] Oltre a quelle ad oggi poco note di Roma, le scuole gladiatorie tardo-repubblicane più prestigiose erano quelle di Ravenna (la cui fondazione di dovrebbe a Giulio Cesare o che fu comunque realizzato/ristrutturato al principio della guerra contro Pompeo del 49–45 a.C.),[17][64] di Pompei, ove era non a caso sorto il predetto primo anfiteatro in muratura e, appunto, di Capua. Fu proprio per la rivolta scoppiata nel ludus gladiatorius di Capua, diretto dal lanista Lentulo Batiato, e capeggiata dal gladiatore Spartaco, domata solo dopo una serie prolungata di costose campagne, a volte disastrose, condotte dalle truppe romane regolari (v.si Rivolta di Spartaco, 73–71 a.C.) che si decise in epoca tardo-repubblicana di regolamentare il reclutamento dei gladiatori.
Negli ultimi anni della Roma repubblicana, caratterizzati da incredibile instabilità politica e sociale, qualsiasi proprietario aristocratico di gladiatori aveva a sua disposizione una forza bruta da impiegare a scopo politico, sia in termini di spettacolo sia di "squadracce" di picchiatori.[65][66][67][68] Nel suo munus del 65 a.C., Cesare, pur già enormemente indebitato, utilizzò 320 coppie di gladiatori in armatura argentata[55][69] e ne aveva a disposizione, nella sua scuola gladiatoria privata di Capua, anche di più ma il Senato, memore della recente rivolta di Spartaco e timoroso del fiorente esercito privato di Cesare tanto quanto della sua crescente popolarità, gl'impose il limite di 320 paia come numero massimo di gladiatori che un cittadino poteva tenere a Roma.[70][71] Lo spettacolo di Cesare fu senza precedenti per dimensioni e spese:[72] aveva messo in scena un munus come rito commemorativo piuttosto che funebre, erodendo qualsiasi distinzione pratica o significativa tra munuera e ludi.[73]
Le leggi anticorruzione del 65 e del 63 a.C. tentarono invano di frenare l'utilità politica dei munera per i loro editores.[74][75] Fu solo dopo la Guerra civile romana (44-31 a.C.) innescata dall'assassinio di Cesare, che Augusto, ormai libero di divenire il primo imperatore romano (r. 27 a.C.–14 d.C.), poté imporre l'autorità pubblica sulla gladiatura, formalizzando la disposizione dei giochi come un dovere civico e religioso.[76] Con una legge del 22 a.C., il Princeps stabilì che fosse il Senato ad autorizzare lo svolgimento dei munera;[77] dopodiché deliberò che i munera ordinaria si svolgessero due volte l'anno, in dicembre, in coincidenza con i Saturnalia, e in marzo per il Quinquatrus, la festa della primavera,[78][79][80] affidandone la complessa organizzazione ai pretori.[81] Fuori da Roma, si mantennero gli ordinamenti di Giulio Cesare che prevedevano la rappresentazione di un munus annuale a cura dei magistrati municipali.
Augusto incise profondamente nella riorganizzazione dei munera, definendo le categorie gladiatorie (lat. armaturae), stabilendo le regole del combattimento e persino la disposizione dei posti a sedere nell'anfiteatro in base alle classi sociali.[82] In tutto l'Impero, i giochi più grandi e celebrati da lì in poi s'identificarono con il culto imperiale sponsorizzato dallo stato che favoriva il riconoscimento pubblico, il rispetto e l'approvazione per il numen divino dell'Imperator, le sue leggi e i suoi agenti. Fu nuovamente Ottaviano a dare l'esempio organizzando munera con 625 coppie di gladiatori.[53][83] Grandiosa fu infatti la munificenza degli spettacoli da lui organizzati (come il munus tenuto nel 7 a.C. in memoria del genero, il generale Marco Vipsanio Agrippa[84]) che, secondo Svetonio,[85] superò quella dei suoi predecessori e restò insuperata dopo che lo stesso Augusto, non a caso, fissò a 120 il limite massimo di coppie di gladiatori che si potevano esibire in un munus. Il Principe stesso, nella Res gestae, ricorderà di aver offerto al popolo i giochi gladiatorii tre volte a suo nome e cinque volte a nome dei suoi figli e nipoti, per un totale di circa 10.000 gladiatori combattenti. Il costo di un munus "economico" per un pretore che impiegava un massimo di 120 gladiatori fu fissato a 25.000 denarii (cioè 100.000 sesterzi) mentre un pomposo ludus imperiale poteva costare non meno di 180.000 denarii. In quanto principale editor di Roma, l'Imperatore divenne inevitabilmente il maggior proprietario di scuole gladiatorie: Augusto ereditò non a caso la familia gladiatoria capuana di Giulio Cesare, da lui ribattezzata Iuliana in memoria del genitore adottivo, per lascito testamentario.[86]
Il disinteresse per i munera del primo successore di Augusto, Tiberio (r. 14–37 d.C.), portò ad un'ulteriore ridimensionamento dei costi allocati per gli spettacoli gladiatorii, nell'ambito del piano di razionalizzazione della spesa pubblica, riducendo ulteriormente il numero di coppie di combattenti.[87] Il risultato fu che molti spettatori incalliti furono spinti fuori dalle mura dell'Urbe, attirati dagli spettacoli finanziati da munifici editores locali. È in questo contesto che si verificò, a pochi chilometri da Roma, la tragedia di Fidenae (27 d.C.) ove, a seguito del crollo di un anfiteatro ligneo mal costruito, secondo Tacito rimasero uccisi o comunque feriti 50.000 spettatori,[88] ridimensionati a 20.000 da Svetonio.[89] Il Senato emanò allora misure che, da un lato, imposero la costruzione di strutture su terreni stabili e, dall'altro, pretesero un'adeguata disponibilità economica (almeno 400.000 sesterzi) dagli editores,[90] limitando così il numero dei giochi offerti dai privati cittadini e finendo per fare dell'organizzazione dei munera una prerogativa imperiale, tanto che divennero uno spettacolo ufficiale e obbligatorio, proprio come i ludi teatrali e circensi. Da qui lo stabilizzarsi e il moltiplicarsi degli anfiteatri in tutto l'Impero (v.si Lista di anfiteatri romani).
Il numero degli spettacoli gladiatorii non calendarizzati, i munera extraordinaria, aumentò enormemente durante l'Impero. La dinastia flavia (69–96 d.C.), iniziata con l'imperatore Vespasiano (r. 69–79 d.C.), dotò Roma di apposite infrastrutture monumentali espressamente dedicate ai munera: anzitutto l'Anfiteatro Flavio, passato alla storia come "Colosseo", inaugurato dall'imperatore Tito (r. 79–81 d.C.), cui si sommarono le scuole gladiatorie imperiali, i ludi (Ludus Magnus, Ludus Gallicus, Ludus Matutinus e Ludus Dacicus), fatti costruire dall'imperatore Domiziano (r. 81–96 d.C.) insieme ad un obitorio (lat. spoliarium), un ospedale (lat. saniarium), un arsenale (lat. armamentarium) che custodiva le armi dei gladiatori, il summum choragium, un edificio dove si costruiva e stoccava l'apparato scenico utilizzato nel Colosseo e il castra misenatium per i marinai della flotta di Miseno,[91] distaccati nella capitale per manovrare il complesso velarium dell'anfiteatro.[92][93] I Flavi ed i loro successori ebbero così un palcoscenico privilegiato ed una dedicata catena di montaggio per i loro costosi e sanguinosi spettacoli, «un apparato monumentale che senza soluzione di continuità qualificava la rinnovata struttura urbanistica dell’Urbe nelle sue componenti funzionali alle diverse forme dello spettacolo.»[19] Tra il 108 e il 109 d.C., Traiano (r. 98–117 d.C.) celebrò le sue vittorie daciche utilizzando 10.000 gladiatori e 11.000 animali in ludi della durata di 123 giorni[94] e promosse, come poi il successore Adriano (r. 117–138 d.C.), una ristrutturazione delle strutture flavie.[95]
Il costo dei gladiatori e dei munera continuò a crescere fuori da qualsiasi controllo. La legislazione del 177 d.C. di Marco Aurelio (r. 161–180 d.C.) fece ben poco per risolvere il problema e il successivo regno di Commodo (r. 180–192 d.C.), figlio ed erede di Marco Aurelio, fu caratterizzato da un uso smodato di munera e venationes.[96]
Declino
modificaIl declino dei munera fu un processo complesso.[97] La crisi del III secolo impose crescenti richieste militari all'erario, dalla quale l'Impero non si riprese mai del tutto, e i magistrati minori trovarono la spesa obbligata dei giochi sempre meno gratificante rispetto a dubbi privilegi d'ufficio. Tuttavia, gli imperatori continuarono a sovvenzionare i giochi per una questione d'interesse pubblico immutato.[98] All'inizio del III secolo, lo scrittore cristiano Tertulliano condannò la frequentazione dei cristiani ai munera: i combattimenti, disse, erano omicidi, la loro testimonianza spiritualmente e moralmente dannosa e il gladiatore uno strumento di sacrificio umano pagano.[99] Secondo Carolyn Osiek:[100]
«Il motivo, supponiamo, sarebbe principalmente la violenza sanguinaria, ma la sua è un'altra: l'estensione del rito religioso e il significato in essi contenuto, che costituisce l'idolatria. Sebbene Tertulliano affermi che questi eventi sono vietati ai credenti, il fatto che scriva un intero trattato per convincere i cristiani a non partecipare (De Spectaculis) mostra che a quanto pare non tutti hanno accettato di starne alla larga.»
Nel secolo successivo, Agostino d'Ippona (354–430) deplorò la fascinazione giovanile del suo amico, poi compagno di conversione e vescovo, Alipio di Tagaste (360?–430), per lo spettacolo dei munera come nemico della vita e della salvezza cristiana.[101] Gli anfiteatri continuarono ad ospitare la spettacolare amministrazione della giustizia imperiale: nel 315 Costantino il Grande condannò ad bestias nell'arena i ladri di bambini. Dieci anni dopo, proibì ai criminali di essere costretti a combattere fino alla morte come gladiatori:
«Gli occhiali insanguinati non ci piacciono nel civile agio e nella quiete domestica. Perciò proibiamo di essere gladiatori coloro che per qualche atto criminale erano abituati a meritare questa condizione e questa condanna. Li condannerai piuttosto a servire nelle miniere affinché riconoscano col sangue le pene dei loro delitti»
Ciò fu interpretato come un divieto di combattimento tra gladiatori. Eppure, nell'ultimo anno della sua vita, Costantino scrisse una lettera ai cittadini di Hispellum, concedendo loro il diritto di celebrare il suo governo con giochi gladiatorii.[103] Come in molti altri aspetti della sua "conversione" al cristianesimo, anche l'atteggiamento di Costantino nei confronti dei munera fu sempre ambiguo. Importante però è ricordare che, all'atto di erigere Costantinopoli quale "Nuova Roma", Costantino ricreò nei minimi dettagli gli edifici pubblici dell'Urbe ma volutamente non fece edificare un equivalente del Colosseo.
Nel 365, Valentiniano I (r. 364–375) minacciò di multare un giudice che avesse condannato i cristiani all'arena e nel 384 tentò, come la maggior parte dei suoi predecessori, di limitare le spese dei gladiatora munera.[104][105][106][107]
Nel 393, Teodosio I (r. 379–395), adottato il cristianesimo niceno come religione di stato dell'impero romano tramite l'editto di Tessalonica (380) ed in linea con i suoi relativi decreti attuativi, vietò le feste pagane.[108] I ludi continuarono, molto gradualmente spogliati dei loro elementi ostinatamente pagani. Suo figlio Onorio (regno 395–423) abolì formalmente i giochi gladiatorii nel 399 e di nuovo nel 404 nell'Impero Romano d'Occidente.[21] Secondo Teodoreto di Cirro (393–458), il divieto fu in conseguenza del martirio di San Telemaco († 391/404), ucciso dagli spettatori di un munus cui tentava di sottrarre lo spettacolo.[109]
Valentiniano III (r. 425–455) ripeté il divieto nel 438, forse in modo più efficace, sebbene le venationes continuassero oltre il 536:[22] sappiamo per esempio che nella Cartagine dominata dai Vandali (429–534), il poeta Luxorius compose all'inizio del VI secolo un epitaffio in onore del giovane bestiario Olimpio[23][24] e che venationes furono organizzate al tempo del re ostrogoto Teodorico il Grande (r. 474–526 d.C.) nel Colosseo. A questo punto, l'interesse per le gare di gladiatori era scemato in tutto il mondo romano. Nell'Impero bizantino, erede cultura e politico di Roma, gli spettacoli teatrali e le corse dei carri seguitavano ad attirare la folla ed a godere di un generoso sussidio imperiale.
Cronologia sommaria della gladiatura
modificaAnno (A.C.) | Anno (D.C.) | Evento |
---|---|---|
264 | Primo spettacolo ufficiale di gladiatori a Roma, nel Foro Boario. | |
105 | I combattimenti dei gladiatori vengono inseriti nei giochi pubblici romani, i Ludi, dai consoli in carica. | |
73-71 | Terza guerra servile, meglio nota come "Rivolta di Spartaco"[N 5] dal nome di Spartaco, gladiatore che guidò ed organizzò gli schiavi ribelli arrivando a minacciare il controllo di Roma sulla penisola italica. | |
35 | Strabone riferisce nella Geografia della trappola ai danni di un certo Seleuro, detto figlio della città di Aitna che, portato a Roma per assistere ai combattimenti fra gladiatori, fu fatto sbranare dalle belve. | |
27 | "Tragedia di Fidenae": Approfittando della politica di austerità di Tiberio, alcuni opportunisti mettevano su delle prove che non erano assolutamente coperte dalle migliori garanzie di sicurezza. Il crollo di un anfiteatro edificato in fretta e furia a Fidenae, qualche chilometro fuori Roma, segnò profondamente i Romani. Tacito, che racconta la tragedia negli Annales, cita la cifra di 50.000 tra morti e feriti. In conseguenza di questa tragedia, la legislazione sull'organizzazione dei giochi fu successivamente molto regolamentata in tutto l'Impero. | |
37 | In controtendenza al regno dello zio Tiberio, l'imperatore Caligola moltiplicò il numero delle corse dei carri e di altre competizioni a Roma privilegiando la gladiatura, che già di suo era lo spettacolo preferito rispetto alla boxe ed alle corse dei carri. | |
80 | L'imperatore Tito inaugura a Roma il Colosseo. | |
192 | L'imperatore-gladiatore Commodo viene assassinato dal suo allenatore-gladiatore Narcisso. | |
200 | L'imperatore Settimio Severo proibisce il ricorso a gladiatori di sesso femminile. | |
325 | L'imperatore cristiano Costantino I proibisce la condanna alla gladiatura per i criminali. | |
393 | L'imperatore cristiano Teodosio I, imposto il cristianesimo come religione di stato, inizia a de-paganizzare gli eventi pubblici. | |
399 | L'imperatore Onorio abolisce i munera e chiude le scuole gladiatorie nell'Impero Romano d'Occidente. | |
439 | Ultimi combattimenti di gladiatori a Roma. |
Note
modificaEsplicative
modifica- ^ Bianca Maria Felletti Maj, La tradizione italica nell'arte romana, vol. 1, Roma, G. Bretschneider, 1977, p. 114.«L'origine etrusca dei giochi gladiatori è stata affermata (O. Keck, in Annlnst, 53, 1881, p. 16 ss) e accettata da molti studiosi.»
- ^ Il livore dei romani nei confronti dei Sanniti si protrasse a lungo, dopo le Guerre puniche, al punto che "sannita" divenne un vero e proprio insulto ai tempi della Repubblica - v.si Wiedemann 1992, p. 33; Kyle 1998, p. 2; Kyle 2007, p. 273
- ^ In origine, queste strutture si chiamavano Spectacula, ad indicarne la funzione per la quale erano state concepite. Il termine anfiteatro, derivato da amphi e theatron, ovvero "luogo da cui si vede tutt'attorno", attestato per la prima volta in (LA) Vitruvio, De architectura., lo soppianterà in breve tempo - Guidi 2006, p. 41
- ^ Tale diffusione, la prima di cui si ha notizia, è un altro indizio a favore dell'origine campana dei giochi - Guidi 2006, p. 11
- ^ La storiografia recente tende spesso a denominare con questo nome il conflitto. Si vedano, ad esempio, Luciano Canfora, Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Laterza, Bari 1999, pp. 15 e 23; Antonio Spinosa, Augusto. Il grande baro, Mondadori, Milano 1996, p. 11; Yvon Thébert, Lo schiavo, in Andrea Giardina, L'uomo romano, Laterza, Bari-Roma 1993, p. 162; Giulia Stampacchia, La rivolta di Spartaco come rivolta contadina, in Index, 1980, volume IX; Masaoki Doi, La rivolta di Spartaco e l'antica Tracia, in AIGC, 1980-1981, volume XVII; Masaoki Doi, Le trattative tra Roma e Spartaco, in IV Scritti Guarino; Roberto Orena Rivolta e rivoluzione. Il bellum di Spartaco nella crisi della repubblica e la riflessione storiografica moderna, Milano 1984; Angelo Russi, Spartaco e M. Licinio Crasso nella Lucania e nel Bruzio, in Studi in onore di Albino Garzetti; Theresa Urbainczyk, Spartacus, Londra 2004.
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