Dojo

luogo di pratica delle arti marziali giapponesi

Dojo[1] (道場?, dōjō) è un termine giapponese che indica il luogo dove si svolgono gli allenamenti alle arti marziali; letteralmente significa «luogo (?, ) dove si segue la via (?, )». In origine il termine, ereditato dalla tradizione buddhista cinese, indicava il luogo in cui il Buddha ottenne il risveglio e per estensione i luoghi deputati alla pratica religiosa nei templi buddhisti. Il termine venne poi adottato nel mondo militare e nella pratica del bujutsu, che durante il periodo Edo fu influenzata dalla tradizione Zen, perciò è a tutt'oggi diffuso nell'ambiente delle arti marziali.

Un dojo in cui si pratica il kendō

Caratteristiche

Nel budō (武道?), «la via (?, ) della guerra (?, bu)», il dojo è lo spazio in cui si svolge l'allenamento ma è anche simbolo della profondità del rapporto che il praticante instaura con l'arte marziale; tale ultimo aspetto è proprio della cultura buddhista cinese e giapponese, che individua il dojo quale luogo dell'isolamento e della meditazione.

I dojo erano spesso piccoli locali situati nelle vicinanze di un tempio o di un castello, ai margini delle foreste, in modo tale che i segreti delle tecniche venissero più facilmente preservati. Con la diffusione delle arti marziali sorsero numerosi dojo che venivano in molti casi considerati da maestri e praticanti una seconda casa; abbelliti con lavori di calligrafia e oggetti artistici preparati dagli stessi allievi, essi esprimevano appieno l'atmosfera di dignità che vi regnava; talvolta su una parete veniva posto uno scrigno, simbolo che il dojo era dedicato ai più alti valori e alle virtù del , non soltanto all'esercizio fisico. In altri dojo si trovavano gli altari detti kamiza (sede degli dei), riferiti non a divinità ma al ricordo di un grande maestro defunto. Il dojo rappresenta un luogo di meditazione, concentrazione, apprendimento, amicizia e rispetto, è il simbolo della "via" dell'arte marziale.

In Occidente questo termine viene impropriamente tradotto in palestra e inteso unicamente come spazio per l'allenamento, mentre nella cultura orientale il dojo è il luogo nel quale si può raggiungere, seguendo la "via", la perfetta unità tra zen (mente) e ken (corpo) e, quindi, il perfetto equilibrio psicofisico, massima realizzazione della propria individualità. Il dojo è la scuola del sensei (maestro): egli ne rappresenta il vertice e sue sono le direttive e le norme di buon andamento della stessa; oltre al maestro ci sono altri insegnanti, suoi allievi, e i senpai (allievi anziani di grado) che svolgono un importante ruolo: il loro comportamento quotidiano rappresenta l'esempio che deve guidare gli altri praticanti; quando un senpai non si cura del proprio comportamento diventa un danno per tutta la scuola.

Nessun allievo avanzato prende dal dojo più di quanto esso non dia a sua volta: il dojo non è semplice spazio ma anche immagine di un atteggiamento, i dojo della "via" si differenziano in questo aspetto dai normali spazi sportivi: l'esercizio fisico può anche essere il medesimo ma è la ricerca del giusto atteggiamento che consente di progredire. L'allievo entra nel dojo e deve lasciare alle spalle tutti i problemi della quotidianità, purificarsi la mente e concentrarsi sull'allenamento per superare i propri limiti e le proprie insicurezze, in un costante confronto con sé stesso.

Il dojo è come una piccola società, con regole ben precise che devono essere rispettate. Quando gli allievi indossano il keikogi diventano tutti uguali; la loro condizione sociale o professionale viene lasciata negli spogliatoi, per il maestro essi sono tutti sullo stesso piano. Si apprende con le tecniche una serie di norme, che vanno dalla cura della persona e del keikogi (che mostra solo l'emblema della scuola), al fatto di non urlare, non sporcare, non fumare, non portare orecchini o altri abbellimenti (per evitare di ferirsi o di ferire), al fatto di comportarsi educatamente sino all'acquisizione dell'etica dell'arte marziale che discende da quella arcaico-feudale dei samurai: il bushido, «la via (?, ) del guerriero (武士?, bushi)».

Il coraggio, la gentilezza, il reciproco aiuto, il rispetto di se stessi e degli altri sono dettami che entrano a far parte del bagaglio culturale dell'allievo. Nel dojo non si usa la violenza: non per nulla le arti marziali enfatizzano la forza mentale e non quella fisica, condannata prima o poi ad affievolirsi.

Si entra e si esce dal dojo inchinandosi: un segno di rispetto verso l'arte del ringraziamento per tutto ciò che di valido essa ha offerto. Anticamente nel dojo veniva eseguito il rito del soji (pulizia): gli allievi, usando scope e strofinacci, pulivano l'ambiente, lasciandolo in ordine per i successivi allenamenti. Tale gesto è il simbolo della purificazione del corpo e della mente: i praticanti si preparano ad affrontare il mondo esterno con umiltà, dote necessaria per apprendere e per insegnare l'arte marziale.

Struttura

 
Schema dell'interno di un dojo tradizionale in cui si pratica judo

Il dojo ha una organizzazione definita in quattro aree principali disposte indicativamente secondo i punti cardinali:

  • Nord: Kamiza (上座? posto d'onore), che rappresenta la saggezza, è riservato al sensei (先生? insegnante) titolare del dojoalle spalle del quale può essere posti un simbolo significativo per il dojo (ad esempio una fotografia o uno scritto del fondatore o di un grande maestro defunto).
  • Est: Jōseki (上席? posto degli alti gradi), che rappresenta la virtù, è riservato ai senpai (下席? compagno maggiore), agli ospiti illustri, o in generale agli yūdansha (有段者? portatori di dan).
  • Sud: Shimoza (下座? posto inferiore), che rappresenta l'apprendimento, è riservato ai mudansha (無段者? non portatori di dan).
  • Ovest: Shimoseki (下席? posto dei bassi gradi), che rappresenta la rettitudine, è generalmente vuoto, ma all'occorrenza è occupato dai 6ⁱ kyū.

In alcuni dōjō, ad esempio nella gran parte di quelli di kendō, tutti i sensei si posizionano in kamiza (non solo quello principale) e tutti gli allievi sono allineati in shimoza, indipendentemente dal grado o dallo stato di senpai e kōhai.

L'ordine da rispettare è sempre quello per cui, rivolgendo lo sguardo a kamiza, i praticanti si dispongono dai gradi inferiori a quelli superiori, da sinistra verso destra. Il capofila di shimoza, usualmente il più esperto tra chi i mudansha, di norma è incaricato del rispetto del reihō. In particolare è incaricato di avvisare i compagni di pratica riguardo: l'assunzione del seiza (正座? posizione formale) in ginocchio, del mokusō (黙想? silenzio contemplativo) e del suo termine yame (止め? fine), del saluto al simbolo posto in kamiza (shōmen-ni-rei (正面に礼? saluto al principale)), del saluto al maestro (sensei-ni-rei (先生に礼? saluto all'insegnante)), del saluto a tutti i praticanti (otagai-ni-rei (お互いに礼? saluto reciproco)), e del ritorno alla posizione eretta ritsu (? in piedi).

Nei dojo tradizionali, inoltre, vi è usualmente uno spazio adiacente alla parete dove è posto il nafudakake (名札掛? tabella dei nomi), dove sono affissi in ordine di grado i nomi di tutti gli appartenenti al dojo.

Note

  1. ^ Marco Mancini, Orientalismi, in Enciclopedia dell'italiano, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010-2011. URL consultato il 19 gennaio 2018.

Voci correlate

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