Le metamorfosi (Ovidio): differenze tra le versioni

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=== La creazione dell'universo: modelli filosofici e letterari ===
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[[File:CadmusHarmoniaEvelynMorgan.jpg|thumb| [[Evelyn De Morgan]] - [[Cadmo]], trasformato in serpente, avvolge la moglie [[Armonia (mitologia)|Armonia]] che sta per trasformarsi anch'essa in serpente]]
 
* Interpretazione di Hardie, l{{'}}''Anti-Eneide'' e il contrasto natura-civiltà: in un articolo del 1990 intitolato “''Ovid's Theban History: The First Anti-Aeneid?''”, il critico inglese, ipotizza che dietro alle storie riguardanti il ciclo tebano, si nasconda la volontà di Ovidio di costruire una vera e propria “anti-Eneide”, un capovolgimento del tema fondante il poema virgiliano: la fondazione di Roma<ref name="Philip Hardie">{{cita|Philip Hardie|1990}}.</ref>. A supporto di tale ipotesi, Hardie porta numerosi esempi e paralleli che possono essere fatti tra i due poemi. Ad esempio entrambi gli autori iniziano il libro terzo con la storia di un esule che vaga per il mondo in cerca di un posto dove insediarsi (Met III.6; En I.756 e 2.294-5), marcato in tutti e due i casi da una profezia divina che comanda di fondare la città là dove un animale deve riposarsi e stendersi: una “vacca” in Ovidio (III.10) e una “scrofa” in Virgilio (III.389 ma anche VIII.42)<ref name="Philip Hardie, p.226-7">{{cita|Philip Hardie|1990|p.226-7}}.</ref>. Hardie poi paragona l'episodio in cui Cadmo cerca i suoi compagni nella foresta con l'Ercole virgiliano del libro 8 che va in cerca dei buoi che gli sono stati rubati, e prosegue mettendo in parallelo il combattimento tra Cadmo e il serpente con quello tra Ercole e Caco<ref name="Philip Hardie, p.227">{{cita|Philip Hardie|1990|p.227}}.</ref>. Due dettagli, secondo il critico, ci permettono di mettere a confronto i due libri: il primo è che Cadmo mentre combatte il serpente indossa una pelle di leone (3.52-3.81), il costante attributo di Ercole; secondo, che Cadmo attacca il serpente con una grande pietra (''molaris'', III.59) una parola rintracciabile soltanto nel III libro delle Metamorfosi e nell'VIII dell'Eneide (VIII.250) come una delle armi usate da Ercole contro Caco<ref name="Philip Hardie, p.227" />. Infine in Virgilio la storia di Ercole si conclude con un inno celebrativo in onore dell'eroe che è riuscito a sconfiggere il mostro (VIII.301), mentre quella di Cadmo con una voce misteriosa che gli predice la sua sventura e la sua futura metamorfosi in un serpente<ref name="Philip Hardie, p.227" />. In questo dunque consisterebbe il rovesciamento del poema virgiliano, e Hardie continua a elencare una serie di esempi a sostegno della sua teoria. Particolarmente interessanti sono poi le osservazioni che il critico fa sulla differenza tra città e natura selvaggia. Se la prima sembra essere un rifugio sicuro per i Tebani, la seconda invece si mostra fatale in quasi tutte le storie del ciclo a partire dallo stesso serpente (che dimora in una foresta vicina alla città) e arrivando ad Atteone e a Penteo<ref name="Philip Hardie, p.227-30">{{cita|Philip Hardie|1990|p.227-30}}.</ref>.
* Interpretazione di Anderson, l'umanizzazione dell'epica: in un articolo del 1993 “''Ovid's Metamorphoses''”, il critico statunitense prende le distanze non solo dalla teoria di Hardie, ma da tutta una tradizione critica che vede nelle Metamorfosi o una semplice parodia o una brutta copia (nel caso di Brooks Otis) dell'Eneide o, infine, la volontà ovidiana di comporre una anti-Eneide<ref name="W.S.Anderson 1993, p.108-18">{{cita|Anderson|pp. 108-18}}.</ref>. Il Ciclo Tebano è per lui nient'altro che uno dei tanti esempi che si possono fare sul come Ovidio abbia cercato di umanizzare gli eroi tipici dell'epica. Non nega che ci siano dei collegamenti tra le Metamorfosi e l'Eneide, ma crede che l'intenzione di Ovidio sia quella di “razionalizzare”, di creare un poema non-eroico<ref name="W.S.Anderson 1993, p.115-17">{{cita|Anderson|pp. 115-17}}.</ref>. Gli esempi che Anderson porta, sono molti, sul ciclo tebano è interessante in particolare l'analisi sul discorso fatto da Penteo ai suoi uomini per spronarli al combattimento contro il dio (e cugino) Bacco e i suoi seguaci, il tipico discorso che un re o un generale fa al proprio esercito prima della battaglia<ref name="W.S.Anderson 1993, p.115-17" />:
 
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[[File:Pythagoras advocating vegetarianism (1618-20); Peter Paul Rubens.jpg|thumb|[[Pieter Paul Rubens]] - Pitagora che istruisce sul non mangiare carne]]
Nell'ultimo libro delle ''Metamorfosi'' [[Pitagora]] è il protagonista di un discorso di più di quattrocento versi (vv.60-478). Il tema centrale è il mutare del Tutto. Introdotto nel poema come maestro di [[Numa Pompilio|Numa]] a [[Crotone]], Pitagora apre la sua “lezione” con un appassionato invito, in nome della pietà, a non cibarsi di carne ma dei soli prodotti della terra, parla quindi dell'immortalità dell'anima e della [[metempsicosi]], e dicendo di ricordarsi di essere personalmente stato, in una vita anteriore, il troiano [[Euforbo]], spiega come tutto si trasformi e nulla si distrugga; come tutto scorre, e come le anime trasmigrano da un corpo in un altro, così il tempo al pari del fiume e il cielo e gli astri continuamente mutano, e l'anno e la vita hanno più fasi; e gli elementi trapassano l'uno nell'altro, e le figure cambiano perpetuamente, ogni cosa rinnova il proprio aspetto; si nasce e si muore, cambiano le età del mondo, la terraferma può cedere il posto al mare e viceversa, fiumi fonti laghi hanno acque con proprietà diverse, isole città monti sorgono e scompaiono, l'[[Etna]] non sempre butterà fuoco, esseri nuovi possono nascere da corpi di animali defunti, gli animali si riproducono e la crescita è cambiamento, la fenice rigenera sé stessa, la natura offre insomma infiniti esempi di trasformazioni; e anche la storia (popoli e paesi) è mutamento continuo, e mutamento sarà anche, un giorno, lo sviluppo della potenza di [[Roma]]. La chiusa è un nuovo invito al [[vegetarianismo]].
* Interpretazione di Bernardini: molti studiosi a questo punto si sono chiesti che cosa sia esattamente questo discorso: è un'esposizione valida delle dottrine pitagoriche, oppure no? Dà una motivazione filosofica all'intero poema, o è più che altro un pezzo di bravura? E come si concilia comunque il suo fondo razionalistico col resto dell'opera, dove dappertutto trionfano mito e fantasia? E perché Ovidio ha scelto Pitagora? Crede nel pitagorismo?<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLII.">Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLII.</ref>[[Piero Bernardini Marzolla|Bernardini]] scrive che “la difficoltà di giudicare proviene da due ordini di ragioni: primo, la solita ambiguità ovidiana, cioè la straordinaria capacità di Ovidio di combinare gioco e serietà; secondo, noi abbiamo delle vere teorie di Pitagora, come è noto, soltanto una conoscenza indiretta, lacunosissima e spesso deformata, e nel discorso molti elementi comunque certi e basilari del pitagorismo sono ignorati, mentre molte contaminazioni sembrano sicure”<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLII." />. Per quanto riguarda le fonti, il materiale costituito dalle testimonianze trasmesseci sul pitagorismo da autori anteriori a Ovidio o coevi, è insufficiente per svolgere un'indagine sul discorso considerato come “tessuto di idee<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLIII.">Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLIII.</ref>. Possiamo soltanto presumere che il poeta abbia attinto a qualche opera (perduta) di Varrone, o forse, ma è una ipotesi ancora più vaga, agli oscuri [[Nigidio Figulo]] o [[Sozione di Alessandria|Sozione]]"<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLIII." />.<br />I tre temi principali su cui si basa il discorso sono il [[vegetarianismo]], la [[metempsicosi]] e il [[Elementi (filosofia)|ciclo degli elementi]], tutti temi che secondo Bernardini sono assimilabili al [[pitagorismo]] e al [[neopitagorismo]] di epoca augustea e che quindi rendono l'idea dell'intenzione ovidiana di restituire l'immagine del Pitagora storico, piuttosto che di un personaggio letterario<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLIV.">Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLIV.</ref>. Molti studiosi hanno individuato un'influenza lucreziana all'interno del discorso, ma secondo Bernardini Ovidio si è servito soltanto del linguaggio e dello stile lucreziani per ribaltare le teorie dell'[[epicureismo]] e quindi di [[Lucrezio]] stesso. Il discorso è calato nel linguaggio poetico-filosofico creato da Lucrezio per due ragioni che si sommano tra di loro: perché Ovidio qui vuole scrivere una parte “lucreziana” (dopo averne composta una enniana, una omerica e poi una virgiliana) e perché nel suo gusto della mimesi, un filosofo deve poter parlare col gergo e nello stile di un filosofo-tipo. E così l{{'}}''aemulatio'' diviene smisurata; Ovidio si maschera da Lucrezio: usa il lessico e il periodare lucreziano, usa vezzi lucreziani (''et quoniam'', ''nonne vides'', ecc.), usa motivi lucreziani. Eppure fa tutto questo per presentare una dottrina agli antipodi dell'epicureismo, per dire cose che Lucrezio non solo non ha detto, ma non avrebbe mai detto e in certi casi ha anzi confutato. D'altronde il personaggio scelto da Ovidio è Pitagora, e Pitagora non può ovviamente dire che cose coerenti con la dottrina di Pitagora, cosicché se Lucrezio, come qui, aveva per caso confutato una tesi pitagorica, Pitagora non può che riaffermarla negando la tesi lucreziana<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLV-XLVIII.">Piero Bernardini Marzolla 1979, p. XLV-XLVIII.</ref>.<br />A questo punto Bernardini si chiede perché Ovidio abbia scelto proprio Pitagora<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p.LIII.">Piero Bernardini Marzolla 1979, p. LIII.</ref>. Pitagora si inserisce nel momento in cui il ''carmen perpetuum'', fluendo verso i ''mea tempora'', sta per passare dai tempi del mito alla storia, quando l'epoca delle belle fiabe finisce e la ragione spinge alla ricerca del ''quae sit rerum natura''<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p.LIII-LV.">Piero Bernardini Marzolla 1979, p. LIII-LV.</ref>. A questo punto la figura di questo pensatore poteva subentrare quanto mai a proposito: Pitagora, e nessun altro filosofo, era perfettamente al suo posto, in un'opera sul tema delle metamorfosi, perché predicatore di quella forma suprema di metamorfosi che è la metempsicosi. Questa trascende le metamorfosi individuali non solo per la sua universalità, ma anche perché al di là dei capricci della fortuna o del fato si presenta come una legge della natura. È per questo che la lezione prende a un tratto una piega decisamente razionalistica e si tramuta in un interminabile compendio di metamorfosi naturali che ha lo scopo di continuare e completare l'esposizione delle metamorfosi mitologiche: ormai, con [[Numa Pompilio|Numa]] e Pitagora, siamo nella storia, e l'interesse poggia sulla spiegazione di fatti e di eventi con base storica più o meno accertabile: fondazione di [[Crotone]], culto del dio [[Virbio]], leggenda di [[Cipó]], importazione del culto di [[Esculapio]] in [[Roma]]<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p.LIII-LV." />. In tutti questi miti l'elemento metamorfico c'è, ma è accessorio. Così, col passaggio dalla fantasia alla ragione, il discorso di Pitagora irrompe non come una motivazione del poema, ma come un culmine della lettura e della rappresentazione dei prodigi del mondo<ref name="Piero Bernardini Marzolla 1979, p.LIII-LV." />.
* Interpretazione di Segal: l'analisi di [[Charles Segal|Segal]] parte da un punto di vista diverso rispetto a quello del Bernardini. Il critico statunitense nel saggio ''Mito e filosofia nelle Metamorfosi: l'augusteismo di Ovidio e la conclusione augustea del libro XV'', inserisce il discorso pitagoreo in una problematica critica più ampia: l'augusteismo o l'antiaugusteismo ovidiano (v. sotto), se cioè Ovidio abbia rispettato i canoni augustei della serietà morale<ref name="Segal p.95-130">{{cita|Segal1|pp. 95-130}}.</ref>. Lasciando da parte per ora il dibattito critico su tale problematica, guardiamo solo all'interpretazione di Segal sulla sezione pitagorica del poema. In maniera del tutto opposta a quanto affermato da Bernardini, Segal crede che Ovidio non abbia voluto presentare le teorie pitagoree “come un culmine della lettura e della rappresentazione dei prodigi del mondo”, tutt'altro egli crede che [[Pitagora]] sia stato introdotto come personaggio da parodiare<ref name="Segal p.116-128">{{cita|Segal1|pp. 116-128}}.</ref>. Per quanto il tono della sezione sia molto più elevato e solenne di quello usato in quasi tutto il resto del libro; per quanto Ovidio sembri prendere una posizione contro gli spargimenti di sangue, esaltando la pace, lasciando trapelare qua e là una concezione più elevata degli dei; per quanto la lunghezza straordinaria del discorso sottolinei la sua importanza tematica, Segal crede che dietro a questa superficie di solennità si nasconda una sottile ironia<ref name="Segal p.117">{{cita|Segal1|p. 117}}.</ref>. In primo luogo, scrive Segal, è discutibile quanto la figura di Pitagora fosse dignitosa e seria agli occhi del romano colto dell'epoca di Ovidio<ref name="Segal p.117" />. Le [[metempsicosi]] di Pitagora ([[Euforbo]], [[Omero]], Pitagora, un pavone) potevano essere oggetto di ridicolo e il Pitagora ovidiano non fa nulla per evitare il rischio del ridicolo<ref name="Segal p.118">{{cita|Segal1|p. 118}}.</ref>. Ovidio infatti, in un lieve accenno parentetico, ma molto probabilmente ironico, sottolinea i ricordi delle trasmigrazioni del suo narratore (XV.160-2): ''Io stesso, ricordo, al tempo della guerra di Troia / ero Euforbo figlio di Panto, colui ch'ebbe un tempo / infitta in pieno petto la lancia del minore degli Atridi'' (XV.160-2).<br />In generale per i romani, nonostante la rinascita di interesse legata alla figura del dotto [[Nigidio Figulo]], Pitagora e i pitagorici erano “tipi equivoci”<ref name="Segal p.118" />: avevano per esempio fornito a [[Cicerone]] l'opportunità di un'invettiva contro [[Publio Vatinio]] (''Contro Vatinio'' VI.14). Anche nel II secolo a.C. sembra che a essi si sia guardato con diffidenza, come si può probabilmente inferire dalla storia molto discussa del rogo dei presunti libri pitagorici ordinato dal Senato. Sembra che le caratteristiche dei pitagorici li abbiano spesso resi lo zimbello dei mimi<ref name="Segal p.118" />. [[Leonardo Ferrero]] ha scritto sul pitagorismo romano della tarda Repubblica<ref name="L.Ferrero, p.386-87">{{cita|Ferrero|pp. 386-87}}.</ref>:
{{citazione|Alla loro determinazione e delimitazione contribuiva efficacemente la intuizione dell'animo popolare. Circolavano voci sinistre sulle pratiche della setta nigidiana, si fantasticava di sacrilegi e di misfatti che i pitagorici avrebbero perpetrato nel chiuso delle loro conventicole; ma accanto al tragico circolava anche il ridicolo, ed il teatro popolare in Roma riprendeva gli spunti e gli argomenti che già un tempo ad Atene avevano contribuito a screditare gli ultimi rappresentanti della setta crotoniate: tipici soprattutto, e che più si prestavano allo spirito comico, i temi della metempsicosi e del vegetarianismo, beffati non soltanto da Lucrezio e da Orazio, ma anche nelle produzioni dei mimografi.
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[[Karl Galinsky|Galinsky]] nel saggio ''Ovid's Metamorphoses and Augustan cultural thematics'' (1999) crede che sia importante mettere in chiaro tre concetti prima di poter parlare di “augusteismo” o “antiaugusteismo” di Ovidio:
* Prima di tutto non dobbiamo credere che [[Augusto]] fosse l'unico critico letterario del tempo. E pertanto è sbagliato farsi un'idea del princeps come l'uomo che decideva cosa fosse di suo gradimento e cosa no. Non ci sono dubbi che perfino le opere dei poeti della generazione d'oro (Virgilio e Orazio) sarebbero state realizzate diversamente se fossero state scritte da Augusto<ref name="Galinsky, p.103">{{cita|Galisnky|p. 103}}.</ref>.
* Non abbiamo la prova che Augusto occupasse il suo tempo a controllare la correttezza politica di tutte le opere letterarie del suo tempo. Dalla Vita di Donato sappiamo che seguì e si interessò alla stesura virgiliana dell'[[Eneide]]; [[Svetonio]] (89.2) scrive che ''Augustus ingenia saeculi sui omnibus modis fouit'' (“incoraggiò i geni del suo tempo in tutti i modi possibili”) e fu presente alle loro orazioni e recitazione pubbliche<ref name="Galinsky, p.103-4">{{cita|Galinsky|pp. 103-4}}.</ref>. Eppure potremmo controbilanciare questo assunto proprio con le parole usate da Ovidio nei [[Tristia]] (II.239), quando il poeta (in esilio a Tomi) scrive che il principe non aveva tempo da sprecare per leggere l{{'}}''Ars Amatoria'' occupato come era negli affari di stato e negli impegni politici (impegni che Ovidio non dimentica di enumerare in ben 25 versi [213-38])<ref name="Galinsky, p.104">{{cita|Galinsky|p. 104}}.</ref>. E lo stesso Ovidio, sempre nei ''Tristia'', supplica Augusto di prendersi un poco di tempo per leggere le ''Metamorfosi'' e accorgersi così quanto gli era sempre stato fedele. Sebbene questo passaggio sia stato spesso interpretato come una richiesta adulatrice da parte del poeta, non è detto che non vada interpretato come quello che è realmente: dedicare un po' di tempo alla lettura di un'opera. D'altronde non dobbiamo presumere che siccome le opere degli scrittori augustei sono al centro dei nostri dibattiti accademici, lo fossero anche per Augusto stesso che aveva sicuramente altro di cui occuparsi<ref name="Galinsky, p.104" />.
* Infine, se vogliamo parlare di augusteismo e quindi di “ideologia augustea”, dovremmo almeno definirne i termini. I critici letterari, più degli storici hanno sempre insistito sul concetto di “augusteismo” o di “antiaugusteismo” parlando delle opere di Virgilio, Orazio, Ovidio e di tutti i poeti che hanno scritto tra la crisi della Repubblica e la nascita del Principato<ref name="Galinsky, p.104-5">{{cita|Galinsky|pp. 104-5}}.</ref>. Così Galinsky mette a punto alcune caratteristiche in comune tra l'epoca augustea e le Metamorfosi, dimostrando quanto sia fondamentalmente inutile parlare di “augusteismo” o di “antiaugusteismo” ovidiano:
1) Già il titolo dell'opera ''Metamorfosi'', rappresenta di per sé un elemento costitutivo dell'epoca augustea: il cambiamento<ref name="Galinsky, p.105">{{cita|Galinsky|p. 105}}.</ref>. Dopo la battaglia di Azio, ogni cosa stava cambiando. Nell'incipit del poema ''In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora'', la parola ''forma'', come [[Lothar Spahlinger]]<ref name="Spahlinger, p.28-9">{{cita|Spahlinger|pp. 28-9}}.</ref> ha recentemente notato, connota l'“essenza psichica”, mentre ''corpora'' riguarda la presenza fisica, l'apparenza concreta (Spahlinger 1996 28-29)<ref name="Galinsky, p.105" />. Questo è un concetto molto presente all'interno dell'opera ed è sottolineato in gran parte di tutte le metamorfosi: la forma cambia, ma l'essenza è preservata. Questo avrebbe potuto offendere un Augusto che stava cambiando ogni cosa? Secondo Galinsky no. Anzi lo storico statunitense prosegue la sua analisi apportando una serie di esempi che dimostrano quanto lo stesso Augusto si facesse promotore di un cambiamento che comunque si fondava sull'antico e questa convergenza di cambiamento e conservazione dell'originaria essenza era un concetto fondamentale per la politica augustea<ref name="Galinsky, p.105" />. In questo senso anche il concetto di ''Roma aeterna'', tante volte usato dai critici per dimostrare l'anti-augusteismo di Ovidio, perde di significato perché lo stesso Augusto predicava il cambiamento<ref name="Galinsky, p.106">{{cita|Galinsky|p. 106}}.</ref>.<br />